Come è cambiata la moda in questi ultimi anni, complice anche la pandemia? Inevitabilmente il settore più dinamico per definizione ha dovuto ripensare le sue forme, dal marketing/comunicazione al prodotto no gender, dal nuovo ruolo dei direttori creativi alla scomparsa dei direttori editoriali (ora head of content di piattaforme più complesse) fino alle geografie della moda stessa, che ora si sposta sul metaverso.
A questi temi complessi risponde l’agile saggio Le forme della moda di Maria Luisa Frisa (Venezia, 1953), edito da Il Mulino, che racconta in modo diretto le evoluzioni di una disciplina che “affronta la contemporaneità̀, la interroga, la definisce senza chiuderla. E, nel farlo, parla di noi, del nostro stare nel tempo”. L’autrice ha rivisto e ampliato la prima edizione del libro uscito nel 2015, tracciando una mappa di percorsi possibili che invitano a riflettere sulle nuove frontiere e prossime sfide del fashion system.
INTERVISTA A MARIA LUISA FRISA
Nella prima edizione del 2015 de Le forme della moda provava a sistematizzare quell’universo multiforme e a dir poco eterogeneo che è il fashion system; è lei stessa a specificare, nella premessa, che la nuova edizione del 2022 è “sostanzialmente una riscrittura”, necessaria perché nel frattempo “il sistema della moda ha subito mutamenti in punti nodali”. Quali sono i principali cambiamenti del settore?
Le forme della moda è un saggio articolato che cerca in maniera chiara di introdurre alla complessità del sistema della moda e delle sue declinazioni senza chiudere i diversi temi, ma cercando di aprire confronti e ricerche. Il sistema della moda ha subito cambiamenti sostanziali nella struttura creativa ed economica, nei confini, nei protagonisti e comprimari. Sono entrati in uso nuove parole e nuovi concetti. Si è inoltre consolidata una nuova consapevolezza culturale, sociale e politica presso un pubblico ormai globale. Sono cambiati i direttori creativi di molti brand importanti. E la stessa editoria di moda si confronta con una nuova generazione di editor-in-chief costretti a lavorare, più che a giornali, a piattaforme di contenuti per permettere la sopravvivenza della testata. Quanto alla critica, il panorama si è radicalmente trasformato, così come le sue voci si sono moltiplicate, rivendicando il proprio peso non tanto attraverso l’affiliazione a una testata prestigiosa, quanto attraverso il numero di visualizzazioni e interazioni con le stories che raccontano.
L’IMPATTO DEL COVID SULLA MODA: LO SCENARIO POST PANDEMIA
Il volume tratta anche dell’impatto avuto dal Covid-19 sul settore, nel segno della “rimozione insieme reale e metaforica […] del corpo”. A suo giudizio quali saranno le peculiarità della moda post pandemica?
Nel libro cito una frase molto abusata, ma chiarificatrice, di Bruno Latour: “Le cose cambiano così velocemente che per noi è difficile star loro dietro”. Poi se pensiamo che adesso ci stiamo confrontando con la guerra in Ucraina, vicinissima a noi, che ci obbliga a calarci in una situazione che mai avremmo immaginato, tutto appare nella sua fragilità. Credo sia necessario riflettere su come risuonano oggi alcune parole. Possiamo, per esempio, usare ancora la parola lusso nel modo in cui l’abbiamo usata fino a oggi? Forse dobbiamo ridefinirne i confini, mettendo in risalto gli aspetti e i valori come la qualità, la ricerca e l’innovazione. La moda è un sistema importante e rilevante che definisce gusti e comportamenti, ma è anche un importante motore economico del nostro Paese. Ha molte responsabilità di cui deve essere consapevole.
Dopo la digitalizzazione forzata imposta dal Coronavirus, sembra siano all’ordine del giorno concetti quali metaverso, NFT e gamification. In questo senso, quali possibilità e prospettive intravede per la moda?
Quello che ci ha insegnato la pandemia è che reale e virtuale sono complementari. L’uno non esclude l’altro. L’esperienza fisica di un abito è qualcosa di molto speciale, ma anche il virtuale ha una sua ragione e sicuramente la gamification introduce quegli elementi di leggerezza, accessibilità e gioco che sono parte integrante della moda. Il retail, in particolare, ha sostituito l’interesse per l’e-commerce con quello per le nuove tecnologie e con il mondo ‒ complesso e ricco di possibilità ‒ del gaming. Per fare un esempio la collaborazione di Balenciaga con Fortnite di Epic Games, con una collezione specifica che amplifica in maniera esponenziale la audience del marchio vestendo i personaggi del gioco con capi acquistabili, occupa un territorio altro in cui la moda esplora mondi alternativi e deve, quindi, ripensare la relazione degli abiti con i nostri corpi.
SOSTENIBILITÀ, FLUIDITÀ DI GENERE E FORMAZIONE
Quello della sostenibilità è diventato “il” tema o, comunque, uno dei temi di maggior rilevanza: il sesto capitolo del libro passa in rassegna diversi aspetti a esso inerenti, dai materiali green a pratiche come upcycling o recycling. Quanto e come sono cambiate le cose, negli ultimi sette anni, da questo punto di vista?
Direi subito che negli ultimi sette anni, anche grazie a forme di attivismo radicali come quella di Greta Thunberg, abbiamo preso consapevolezza che l’ecologismo non deve muoversi per settori, ma deve agire in una dimensione in cui tutto è strettamente interconnesso. La moda ha fatto e sta facendo moltissimo. Da segnalare che molti grandi gruppi e fashion designer stanno adottando pratiche che riducono progressivamente l’impatto ambientale per la produzione di oggetti e collezioni e nel ridefinire il concetto di sostenibilità come un concetto ampio, che tiene insieme pratiche come l’upcycling, il recycling, i movimenti di sustainable, eco ed ethical fashion. C’è ancora purtroppo tanta confusione. E spesso c’è un uso della comunicazione a effetto: il tessuto fatto con le bucce d’arance o con le alghe non risolve certo il problema della sostenibilità. O ancora i tessuti, o i materiali usati, saranno molto difficili da smaltire. Mi viene in mente la questione delle pellicce. Molte aziende importanti hanno smesso di produrle. Questo è un gesto meritorio che risponde alle istanze animaliste. Ma una pelliccia sintetica non è sostenibile. È fatta con materiali che non verranno mai smaltiti, al contrario delle pellicce vere. Per questo se è necessario da una parte lavorare sull’informazione e sulla sensibilizzazione, dall’altra è fondamentale lavorare in chiave sostenibile su tutti passaggi della produzione.
Brand e consumatori mostrano una sensibilità via via maggiore rispetto alla cosiddetta gender fluidity, come valuta tutto ciò?
Maschile e femminile non sono solamente generi che identificano due fisicità e mentalità diverse, sono attitudini al vestire che non vedono più la divisione tra i sessi o le differenze ma mescolano le caratteristiche di entrambi arrivando a una nuova definizione di a-sex: un genere che non è basico, ma mescola caratteri opposti, e veste un corpo che culturalmente perde gli attributi del genere stesso, di him e her e diventa they, loro. Indya Moore, star della serie Pose, ha collaborato con Tommy Hilfiger per una collezione gender free. Oggi le persone sembrano più libere di muoversi tra le offerte e cercare ciò che è più conforme a una propria idea: questo anche grazie alla presenza mediatica di personalità che hanno sdoganato un certo tipo di libertà nella formazione del proprio stile è il caso, per esempio, di performer come Billy Porter e Harry Styles e, in Italia, di Damiano David dei Måneskin e Achille Lauro. Sin dal suo inizio come direttore creativo di Gucci, il lavoro di Alessandro Michele è insieme una negazione dell’identità “erotica” del marchio, nella forma in cui eravamo abituati a considerarla, e una sua evoluzione. Una sessualità in transito di una generazione astratta e pensierosa. “Sono un dissidente del sistema sesso-genere”, scrive Paul B. Preciado, con cui Alessandro Michele ha voluto a dissertare da un vecchio televisore, nel film Ouverture of something that never ended, girato con Gus Van Sant in epoca di pandemia. C’è la consapevolezza diffusa che se la moda progetta i corpi ha anche la responsabilità di esprimere quella complessità che plasma gli immaginari. Oggi, la sfida di alcuni autori – tra cui spicca, per intensità visionaria, Francesco Risso per Marni – è quella di riuscire a far leva sulla capacità trasformativa della moda, sulla valorizzazione dell’elemento di unicità. Non solo abiti, allora, ma corpi che abitano vestiti. Personalità che si appropriano dell’oggetto abito e lasciano la loro impronta.
L’artigianalità dei prodotti è una conditio sine qua non, eppure la figura dell’artigiano è stata ‒ e in parte resta ‒ relegata ai margini, considerata a lungo una professione tecnica, tanto che numerose aziende si sono attivate in proprio con scuole, tutorship, iniziative ad hoc. Trova che qualcosa stia effettivamente cambiando da questo punto di vista?
È un problema effettivo quello della formazione dei creativi, che sappiano tenere insieme un’attitudine manageriale con uno spirito immaginativo e una conoscenza delle tecniche artigianali e industriali. Sicuramente le iniziative di certe realtà aziendali sono molto importanti, ma credo dovremmo immaginare sinergie fra università pubblica e sistema produttivo per garantire una formazione che non risponda solo a ciò che già esiste, ma che sia in grado di immaginare anche quelle professionalità che ancora non ci sono a partire dall’esistente.
‒ Federico Poletti
Maria Luisa Frisa – Le forme della moda
Il Mulino, Bologna 2022²
Pagg. 200 € 12
ISBN 9788815295682
https://www.mulino.it
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