La Fortuna, l’ultimo romanzo di Valeria Parrella (Torre del Greco, 1974) è da ritenersi uno dei più riusciti spot promozionali per il Parco Archeologico di Pompei e in generale per il nostro patrimonio culturale. L’abbiamo incontrata per condividere alcune riflessioni a partire dalle avventure del suo personaggio Lucio, protagonista dell’eruzione del 79 d.C.
Come e quando è nata l’idea di un romanzo storico, ambientato durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.?
Io non credo che sia un romanzo storico: avendone letti tantissimi, non credo abbia quell’abbrivio, la tecnica narrativa, la grandezza. Penso più sia un romanzo picaresco, una novella alla Conrad, non è un romanzo alla Marguerite Yourcenar. È solo ambientato in un’altra epoca ma questo non basta farne un romanzo storico; è ambientato in un’epoca e i romanzi devono sempre esserlo, anche quelli di fantascienza.
Il suo libro ha riscosso, tra le tante recensioni positive, anche il plauso del Direttore Generale del Parco, Gabriel Zuchtriegel, nonché di Massimo Osanna, che hanno sottolineato come il romanzo sia una risposta alla fame di storie narrate ad arte che tutti noi abbiamo, nel rispetto degli autori che l’hanno preceduta. Come si è mossa per raccogliere il materiale e da lì poi come si è distaccata da una tale mole di Storia?
Ero molto preoccupata dagli archeologi, perché è chiaro che mi sono documentata – io comunque vengo da studi di Lettere Classiche – ma dicevano “qua trovano comunque il Rolex”.
Il Rolex?!
C’è questa storia bellissima di quando hanno fatto il colossal Ben-Hur, quando ancora non c’erano i computer. Durante una scena colossale, con l’esercito nella pianura, una comparsa indossava l’orologio, e così furono costretti a buttare non sono quanti chilometri di pellicola. Io sono stata tutto il tempo a pensare: “Troveranno anche a me l’orologio”. Quindi, quando ho visto che gli archeologi iniziavano a leggerlo senza attaccarmi (alla giugulare), ho pensato: “È andata liscia!”.
Quanto conoscevi la materia?
Io vengo da lì, conosco Pompei, ho studiato Lettere Classiche alla Federico II di Napoli, ho studiato greco con Marcello Gigante, che ha aperto i papiri ercolanensi. In questo momento ti sto rispondendo da un terrazzo da cui si vede lampeggiare il faro di Capo Miseno. Sono cose che conosco e poi chiaramente devo controllare le informazioni. La cosa più bella in assoluto da ricercare è stata la cultura materiale, più che l’avvenimento storico. Per esempio l’anno scorso, di questi tempi in vacanza a Procida, leggevo Vita quotidiana a Pompei, un tomo di 400 pagine che sembra un romanzo nonostante sia un saggio, e poi Un giorno a Pompei di Eva Cantarella… È meraviglioso quando ti ricostruiscono la vita quotidiana.
Il protagonista, il giovane Lucio, vede da un solo occhio ma questo non frena la sua sfida verso la Sorte, le Parche. Non posso non pensare all’importante e sempre più sostanziale percorso verso l’accessibilità e l’inclusione che il Ministero della Cultura sta facendo. Qual è il suo rapporto con i musei e in generale i luoghi della cultura? Ha mai avuto esperienze di fruizione di percorsi pensati per pubblici specifici (dalle video-guide in Lingua dei Segni ai percorsi tattili o multisensoriali, o anche solo con linguaggio facilitato)?
Il Ministero della Cultura sostanzialmente sta recuperando un gap. Avendo avuto il privilegio di girare il mondo, queste cose le ho sempre viste. Fino a 5-10 anni fa, il Museo Archeologico di Napoli, che custodisce il tesoro della Magna Grecia, aveva delle scale che non permettevano di raggiungerlo a una persona con disabilità motoria. Ancora adesso, il MADRE ha una terrazza non fruibile se hai una disabilità motoria. Si stanno semplicemente mettendo in pari, non stanno facendo niente di speciale. È un movimento lungo e lento. In Italia la legge sulla disabilità è arrivata solo nel 1992. Se leggi Nato due volte di Giuseppe Pontiggia, scritto precedentemente, capisci che quello è il figlio di un grande intellettuale, amatissimo dalla madre; possono avere tutto il sostegno del mondo, tranne quello dello Stato, che non esiste. Possono andare dai migliori medici, terapisti, in Chiesa, ma devono inventarsi un loro percorso. Dal 1992 è cambiato tutto, ma le leggi hanno una ricaduta molto lenta sulla società.
Quanto c’è, in questa riuscitissima sintesi tra la grande filosofia e le scelte di vita personali di ogni singolo individuo come Lucio, di quello che abbiamo vissuto nei due anni di pandemia?
Penso che il punto sia proprio questo, anzi i punti sono due: qual è il tesoretto sui cui possiamo contare quando arriva la catastrofe? Perché prima o poi arriva, cioè ci sono persone fortunate che non la affrontano mai, ma la maggior parte sa di cosa sto parlando e più si cresce e più si sa. Ora, che cosa abbiamo noi, di cosa ci possiamo armare? Dei nostri studi, degli incontri, della nostra curiosità, della nostra forza d’animo? Ecco, io volevo armare Lucio di tutte queste cose insieme e volevo farlo perché noi, in qualche modo, ci siamo organizzati come società per far fronte a una catastrofe. È stata un’esperienza recente per l’Occidente, ma per il resto del mondo sono esperienze quotidiane. Per noi le epidemie o la guerra sono rarità e mi interessava parlare di questo.
Quanto Pompei, come luogo della memoria collettiva, apparentemente abitata da soli defunti, può essere una chiave di ripartenza, di ricerca di quella gioia di vivere che dovrebbe ispirarci?
Pompei è l’esempio di come si possa riemergere: a differenza degli altri siti archeologi, non è invecchiata. Il Colosseo sta là, ma è stato saccheggiato per riutilizzare le parti marmoree, invece Pompei è stata chiusa e poi riaperta, e quando è stata riaperta era così, integra. Io sono nata nel 1974 e mi ricordo il terremoto del 1980: fu una domenica pomeriggio alle sette, noi scappammo e quando tornammo tre giorni dopo a prendere il necessario a casa, trovammo intatto quello che c’era sulle nostre tavole, come il pane trovato nel forno negli scavi. Ecco, Pompei è proprio il racconto di questa cosa.
Vorrei porre l’attenzione sul suo stile, sul linguaggio che ha scelto per raccontare Napoli e il suo territorio: a ogni parola selezionata si percepisce una passione, una sensualità che non mette mai a tacere le contraddizioni e le fatiche ma cerca sempre una via per la conciliazione.
Io scrivo ad alta voce, in Feltrinelli lo sanno perché mi hanno visto e l’ultimo giorno, quando abbiamo corretto il manoscritto con le mie editor (Laura Cerutti e Helena Janeczek), abbiamo letto tutto il manoscritto ad alta voce. Certo, io per fortuna scrivo libri piccoli, sarebbe impossibile con libri di quattrocento pagine, però quello che tu senti è questo, la precisione, l’accuratezza mentre scrivi di usare una parola piuttosto che un’altra, che quel giro di frasi deve finire in quel modo… È quasi più importante di quello che stai dicendo, cioè diventa quello che stai dicendo. È un “sinolo”, direbbe Aristotele: forma e sostanza sono un’unica cosa. Grazie all’esercizio di leggere e scrivere ad alta voce, se qualcosa sfugge o stona te ne accorgi, ti vergogni e quindi lo cancelli.
Cosa significa diventare la voce di una città?
Napoli è faticosa, anche da raccontare. È stata talmente tanto raccontata, nel teatro, nella canzone, prima di me… Come si fa? Si fa con un poco di coraggio. Si legge tutto, si studia tutto, poi si butta. Poi un giorno dici: “Ma io che volevo dire?”. E lo dici con parole nuove.
– Annalisa Trasatti
Valeria Parrella – La Fortuna
Feltrinelli, Milano 2022
Pagg. 144, € 16
ISBN 9788807034862
www.lafeltrinelli.it
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