Chi era bell hooks, black feminist e scrittrice americana
Riflessioni su arte e cinema, black feminism, suprematismo bianco, artwashing, pedagogie anticoloniali e capitalismo. Con questi temi ripercorriamo la storia di bell hooks a otto mesi dalla morte di questa femminista rivoluzionaria
bell hooks, al secolo Gloria Jean Watkins, si firmava con le iniziali minuscole, nel tentativo di confinare il suo io in secondo piano, dirottando l’attenzione di lettori e studenti sulle sue idee. Scomparsa prematuramente otto mesi fa, era nata nel 1952 in una famiglia afroamericana della classe operaia, in una città segregazionista degli Stati Uniti del sud.
Femminista prolifica e rivoluzionaria, è soprattutto per merito suo che l’approccio intersezionale è entrato nel dibattito identitario, anche al di fuori dell’accademia. Molti suoi titoli sono in corso di pubblicazione o ripubblicazione in Italia come La volontà di cambiare, in uscita per il Saggiatore fra pochi giorni, Insegnare a trasgredire e Insegnare comunità (Meltemi, quest’ultimo in uscita il 9 settembre) e Il femminismo è per tutti (Tamu), entrambi di recente distribuzione. Ne abbiamo discusso con Elvira Vannini, storica dell’arte, critica d’arte e docente alla NABA di Milano, nonché fondatrice del magazine hotpotatoes.
BELL HOOKS SECONDO ELVIRA VANNINI
Per hooks i femminismi tendono a interrogarsi sulle strutture patriarcali che opprimono le donne, ma raramente su come le stesse strutture influenzino l’uomo. L’attenzione della femminista americana per maschilità e mascolinità ha segnato un cambio di passo negli studi di genere?
Uno degli assunti più forti ‒ insieme alla riflessione politica di altre militanti del Black Feminism ‒ è il riconoscimento della simultaneità delle oppressioni, il non dover scegliere tra la lotta antirazzista e quella transfemminista. Razzismo e sessismo sono rapporti di dominio interconnessi; il patriarcato è un sistema oppressivo millenario che investe anche gli uomini, che ne traggono i maggiori privilegi, ma sessismo e dominio maschile riguardano l’intera organizzazione sociale e anche le donne sono soggetti di potere.
hooks si è occupata anche del tema dell’educazione. Si può davvero insegnare a trasgredire?
L’insegnamento ‒ nella sua pratica impegnata che si nutre delle pedagogie anticoloniali, critiche e femministe ‒ è un atto politico, per produrre liberazione e non asservimento. La mente viene colonizzata quando l’immaginazione (politica) è in pericolo. In una società intrisa di ingiustizie, oppressione e sfruttamento, il suo è un femminismo visionario che genera contro-saperi e immaginari. La scuola autoritaria trasmette una disciplina depositaria, funzionale a riprodurre una società gerarchica, piena di diseguaglianze di classe e pregiudizi razziali, accentrando le esperienze dominanti che diventano normative, reprimendo le voci dissidenti, delegittimando i corpi fuori-norma e disobbedienti, di chi vive ai margini. L’aula rimane lo spazio più radicale di possibilità per l’accademia: questi scritti ci parlano ancora oggi con grande potenza. bell hooks, che proveniva da una famiglia di umili origini e aveva frequentato una scuola segregata, affermava che era già una “rottura” essere entrata nell’accademia, dove ha portato le sue trasgressioni in una lezione rivoluzionaria: l’educazione è una forma di lotta, non solo per resistere o liberarsi, ma per immaginare il cambiamento.
hooks si definiva “queer-pas-gay”, alludendo a un discorso più ampio rispetto alla sessualità, a una sorta di resistenza alle tassonomie identitarie. Come interpreti la queerness di hooks?
Nel momento in cui la decostruzione dell’identità nei gruppi oppressi e subalterni coincide con la costruzione di una radicalità nera, essere queer per bell hooks elude un sistema binario di opposizioni escludenti, non si tratta di un’entità aprioristicamente determinata, per essenza o per natura, ma del processo di auto-determinazione di una soggettività multidimensionale, sulla scia di quei femminismi che rompono sia con l’egemonia maschile, eterosessuale e borghese, sia con la narrazione monolitica di una minoranza di donne – bianche e di classe superiore – che è stata universalizzata dal femminismo liberale. Oggi che la cooptazione neoliberale delle differenze di razza e genere produce inclusività e rivendicazioni identitarie, al servizio di una funzionalità capitalistica piuttosto che aprire spazi antagonisti e di soggettivazione, l’intersezionalità del suo pensiero è più che mai necessaria, nella traiettoria politica e delle lotte del femminismo nero, contro il sistema patriarcale, capitalista e suprematista bianco.
IL WHITEWASHING NEL MONDO DELL’ARTE
A proposito di rappresentazione e invisibilità di soggetti minoritari nell’arte: in Art on My Mind hooks stigmatizza l’élite bianca che monopolizza il mondo dell’arte, decidendo cosa produrre e chi promuovere. È ancora oggi così? È possibile decolonizzare l’arte, se persino le modalità con cui “guardiamo” l’arte vengono condizionate, anche inconsapevolmente, da dinamiche di potere, come suggeriva hooks?
Le differenze di razza e genere, la loro invisibilità o iper-visibilità all’interno delle istituzioni artistiche, rispondono a una riconfigurazione neo-arcaica e neocoloniale che si muove sul piano del riconoscimento capitalistico, dall’ordine del discorso mainstream e dal mercato.
Il mondo dell’arte non è estraneo ai rapporti sociali: costitutivamente articolato su asimmetrie di classe, di ordine patriarcale, razzista e coloniale, ha fondato la propria egemonia sulla fiaba modernista dell’imparzialità e dell’universalismo e ha servito, da sempre, gli interessi della classe dominante. Se hooks ha definito un album di Beyoncé “il miglior guadagno capitalista” e l’ha attaccata come “terrorista”, che dire dei Leoni d’oro alle artiste afroamericane? Gli spazi dell’arte sono implicitamente whitewashed: anche se aumenta la rappresentazione delle soggettività razializzate (artistə BIPOC e LGBTQ+), non si rovesciano le gerarchie sociali e le vite dei neri continuano a essere trattate come inferiori.
hooks credeva nella potenzialità dell’arte e del cinema di dischiudere nuove posizioni epistemologiche, immaginari liberatori capaci di restituire agentività e dignità a soggetti discriminati, superando così rappresentazioni stereotipiche, paternalistiche, misogine o razziste. Condividi il suo ottimismo?
Il sistema artistico, espressione paradigmatica e governamentale dell’artwashing e del neoliberismo più avanzato, non è un campo innocente: non condivido l’ottimismo per l’arte, nel modo con cui, per hooks, l’estetica nera poteva stabilire un nesso con la politica rivoluzionaria. L’alleanza criminale tra patriarcato e capitalismo può essere combattuta, insieme alle sue strutture violente e oppressive: i femminismi ci hanno insegnato che nessun processo potrà dirsi concluso fino a quando non si cambia tutto.
‒ Edoardo Pelligra
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