Tutta l’arte italiana degli anni Dieci finisce in strada con l’intenzione di ritrovarsi e forse con un’intenzione in più, quella di non usare l’arte come mezzo d’espressione, ma come mezzo di intervento. La differenza essenziale con gli artisti del decennio precedente sta proprio in questo, in questa volontà di impugnare l’arte perché produca uno strappo, una frattura nella cortina di ferro di una realtà divenuta soffocante tra i diversi strati delle sue coltri politiche, culturali, economiche e finanche esplicitamente sistemiche – per quel che attiene alle arti visive. Andare in strada ha significato uscire dalle gallerie, uscire dai consessi borghesi in cui il collezionismo ha finito per prendere una sorta di deriva edonistica. Non è un mistero, infatti, che nell’intera parabola della storia dell’arte è proprio nel XXI secolo che gli artisti, in Italia soprattutto, vedono ridurre la propria influenza, la propria autorevolezza, nel sistema dell’arte, fino a trovarsi spesso relegati a ruota di scorta di un carro che sembra andare avanti benissimo da solo, anche senza di loro, con le sue retoriche, le sue cene, le sue relazioni portate avanti da catene interminabili di intermediari. Non si è mai registrata come negli anni Dieci una distanza tanto eclatante tra artisti e sistema.
E questa relativa irrilevanza, inutilità, in cui le forze creative vengono relegate, è la condizione ideale perché le ruote di scorta rotolino giù dal carro mentre nessuno le vede e inizino a rotolare per la loro strada proprio come nel video emblematico prodotto da Francis Aly͏̈s per Documenta 13 a Kabul, negli stessi anni delle pratiche fin qui registrate. Reel-Unreel (2012), passando dalla scena nazionale a quella internazionale, si connota come un video manifesto di questo decennio incatenando il lavoro dell’arte italiana a un sentimento della strada che risuona in modo globale nell’arte. E così si comprende come il rotolare via degli artisti dal sistema, negli anni Dieci, non rappresenti una fuga dall’irrilevanza, ma la voglia di procedere ostinatamente lungo il percorso antico, lungo la via più propria dell’arte, lontano dalle corti e più dentro i conflitti. La stessa idea di arte come strumento di intervento sulla realtà, che abbiamo notato precedentemente, è una reazione alla irrilevanza dietro cui si è trincerato un sistema culturale sempre più lontano dai grandi numeri del pubblico e quindi da un’idea democratica della conoscenza e dell’arte. […]
È questo forse il primato che va riconosciuto all’arte italiana degli anni Dieci sulle neo-avanguardie e post-avanguardie del secondo Novecento. La sua sussistenza in ragione non di una lettura critica di impostazione ma di una reale convergenza poetica. L’arte degli anni Dieci in Italia, si voglia seguire o meno la definizione che ne ha dato uno dei suoi interpreti, esiste in forza di una coerenza riscontrabile nella pratica e non nelle intenzioni. Esiste in forza di una coerenza che non ha avuto bisogno di guardiani e teorizzatori. L’arte degli anni Dieci è un’arte orfana, cresciuta per strada, senza padri o educatori. È un’arte figlia di nessuno, e quindi, fino ad oggi, da nessuno riconosciuta nell’insieme del suo fenomeno. È questa, probabilmente, la ragione del silenzio critico che l’ha avvolta (al di là delle già citate mille monografie, talvolta commissionate e pagate dai diretti interessati). Ma, per questo, è un’arte più forte, più robusta e, forse, più capace di lasciare tracce profonde che possano incidere anche nei decenni successivi.
Lucrezia Longobardi
© 2022 Lit edizioni per gentile concessione
Lucrezia Longobardi – 15 ipotesi per una storia dell’arte contemporanea. Appunti per una lettura del XXI secolo
Castelvecchi Editore, Roma 2022
Collana Fuoriuscita
Pagg. 252, € 20
ISBN 9788832907414
http://www.castelvecchieditore.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati