La prima pubblicazione dedicata alla curatela di moda in Italia, dall’analisi di mostre seminali ed esperienze espositive di archivi aziendali e musei d’impresa fino alla definizione stessa di moda italiana, è Curating Italian Fashion: Heritage, Industry, Institutions, ricognizione storico-critica delle pratiche espositive culturali e museali della moda sul territorio nazionale, a opera di Matteo Augello. Ricercatore e docente presso l’Istituto Marangoni di Londra, la Regent’s University London e il London College of Fashion, è anche uno studioso e performer italiano, che vive e lavora a Londra, con alle spalle alcune esperienze in istituzioni come Fondazione Antonio Ratti e Palazzo Morando. Non solo la sua pubblicazione ma anche altre sul tema ‒ Fashion curating. Pensare la moda attraverso la mostra di Luca Marchetti e il censimento sulle mostre di moda fatte in Italia, realizzato dagli studenti dello IUAV di Venezia e pubblicato dalla libreria Marco Polo, Cara moda ti meriti un museo ‒ rappresentano un momento di mappatura e definizione di queste pratiche ancora poco conosciute e studiate, forse preparando il terreno per un futuro museo della moda. L’assenza di una vera e propria istituzione nazionale, capace di conservare e studiare, accende ancora oggi il dibattito sulla “mostra di moda” come dispositivo capace di generare riflessioni sulle discipline della moda stessa, e la loro l’influenza nel contesto storico e sociale. Curating Italian Fashion: Heritage, Industry, Institutions ricostruisce le maglie della relazione tra industria e curatela dimostrando, attraverso l’analisi del loro ruolo, una lunga storia fatta di esperienze espositive nate spesso da iniziative private. Matteo Augello dipana i fili della matassa in un’intervista su queste questioni e domande centrali sul significato culturale della moda.
INTERVISTA A MATTEO AUGELLO
Partiamo dall’inizio, molti ancora non sanno cosa significhi fashion curating.
Curating non è un sostantivo ma è il gerundio del verbo to curate ‒ curare in italiano –, un termine che descrive il racconto di una narrativa attraverso lo studio e l’esposizione di oggetti. Ho scelto di usare questo tempo verbale perché il libro non parla solo dei curatori – gli “autori delle mostre” –, ma dei diversi modi impiegati per raccontare la moda italiana, discutendo anche il lavoro di archivisti e accademici.
Ricercatore e performer, come vivono queste due anime nel tuo lavoro?
Usare il mio corpo per articolare le idee è un aspetto fondamentale del mio approccio. All’inizio è stato un vero e proprio istinto, volermi mettere abiti del passato. Con il tempo ho iniziato a riflettere su come la performance possa essere un valido strumento di ricerca. Ho voglia di raccontare le storie che studio. Vorrei fare dei documentari teatrali, dove invece di una presentazione di diapositive ricreo tutte le immagini con il mio corpo.
IL LIBRO CURATING ITALIAN FASHION
Il libro nasce dalla ricerca di dottorato che hai svolto, approfondendo un tema poco esplorato della cultura di moda italiana.
A 21 anni ho iniziato a lavorare alla Fondazione Antonio Ratti di Como, dove ho conosciuto Margherita Rosina, allora direttrice del museo tessile in FAR, che mi ha presentato molti studiosi. Ho scoperto un vasto mondo di connessioni – spesso ingarbugliate – tra industria e istituzioni, che ho deciso di mettere in ordine e analizzare. Lo studio della moda non è cosa recente, ma si è evoluto nel tempo e nel libro racconto come le industrie tessili e della moda abbiano contribuito allo sviluppo di questo campo in Italia.
La copertina è un tuo ritratto scattato da Daniele Fummo. A chi è venuta questa idea?
Sono molto fiero della copertina! Non è prassi che un accademico si metta in mostra, ma per me è inevitabile. Il primo capitolo parla dell’importanza del Rinascimento nel costruire l’identità della moda italiana, così ho voluto citare la tradizione ritrattistica dell’epoca e in particolare Giovanni Battista Moroni, i cui soggetti spesso tenevano un libro tra le mani. Io ho scelto La donna fatale, tratto da una serie a cura di due importanti figure raccontate nel mio testo: Grazietta Butazzi e Alessandra Mottola Molfino.
E perché questa scelta su una pubblicazione a carattere scientifico, destinata a un pubblico per lo più di tipo accademico?
Ho pensato che il titolo mi definisse molto bene, e la copertina gialla è anche una citazione del libro che Oscar Wilde teneva tra le mani quando fu arrestato per omosessualità. Volevo creare una copertina piena di simboli – purtroppo non posso raccontarveli tutti – e il fotografo Daniele Fummo mi ha aiutato a farlo. Tra me e Daniele c’è una vera e propria collaborazione artistica e abbiamo in cantiere diversi progetti insieme.
Perché nel nostro Paese, considerato da sempre centrale nel sistema internazionale della moda, il curatore di moda è ancora una professione poco riconosciuta? Cosa sei riuscito a dimostrare con la tua pubblicazione?
L’importanza attribuita ai curatori deriva dal mondo dell’arte contemporanea e dai curatori-celebrità. Il problema nasce dal mancato apprezzamento della cultura della moda: si parla di industria, di sfilate, di stilisti, di modelli – ma la moda come strumento di comunicazione sociale non è altrettanto discusso. Tuttavia, nel libro dimostro che le mostre sul tessile e sulla moda si fanno da tempo ed esiste un ventaglio di professionalità legate a queste attività.
Nell’evoluzione di queste pratiche è stato essenziale il ruolo di quelli che chiamiamo Musei d’Impresa. Questo aspetto è centrale nella tua ricerca anche attraverso la definizione di corporate archives e corporate museums.
La mia ricerca di dottorato era proprio diretta allo studio dei musei e delle istituzioni aziendali. Esiste un sistema complesso di archivi, collezioni e fondazioni che operano in maniera diversa. L’attenzione riposta verso le arti maggiori in Italia ha fatto sì che le aziende stesse dovessero prendersi cura del loro patrimonio. Trovandosi in questa condizione, hanno sviluppato strategie che uniscono marketing e valorizzazione culturale. Visti i continui tagli a fondi statali, le esperienze delle istituzioni aziendali secondo me sono preziosissime per pensare al futuro.
C’è in particolare un’esposizione che ritieni fondamentale nell’evoluzione delle pratiche curatoriali sulla moda?
C’è una mostra che ho sempre in mente: La camicia bianca secondo me. Gianfranco Ferré, organizzata dal Museo del Tessuto di Prato e dalla Fondazione Gianfranco Ferré nel 2014. Io la vidi nella Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale a Milano l’anno successivo. Non la menziono da accademico, ma da visitatore: è stata la mostra di moda che più mi ha emozionato, poetica e raffinatissima!
Sono ancora poco conosciute le esperienze curatoriali degli Anni Ottanta, in particolare legate alla figura di Grazietta Butazzi. Qual è stato il suo apporto nella definizione di heritage e moda italiana?
Grazietta Butazzi scrisse un libro molto importante nel 1981, Moda: arte/storia/società, che consiglio a tutti. È una storia culturale della moda ma parte dalla conoscenza minuziosa degli oggetti in diverse collezioni. Grazietta faceva parte di un’associazione – CISST, Centro Italiano per lo Studio della Storia del Tessuto – di studiosi che tra la fine degli Anni Settanta e i Novanta hanno prodotto molti testi sul tessile e sulla moda, ancora validissimi. Nel 2014 la Fondazione Ratti organizzò persino un convegno per celebrare l’importanza della Butazzi nello sviluppo degli studi di moda – vi consiglio di leggere gli atti.
IL FUTURO DELLA MODA IN ITALIA SECONDO MATTEO AUGELLO
Sembra essere un momento di ricognizione e interesse sul significato di fashion curating in Italia. Ci prepariamo per un museo della moda?
Sono quarant’anni che ci stiamo preparando, io personalmente mollerei la presa! Scherzi a parte, il museo è una struttura complicata con diverse funzioni, l’attività espositiva è solo una frazione delle attività di un museo. Inoltre, c’è il problema di come costituire una collezione: il mercato di abiti vintage è sempre più caro e non ci si può aspettare che aziende attive donino parte del loro archivio quando questo è fondamentale per il loro lavoro. Esiste già una rete di istituzioni, pubbliche e private, che in diversi modi si occupa della moda – sviluppiamola.
In che direzione sta andando la tua ricerca? Quale futuro vedi in Italia per questo settore?
Vedo un futuro molto promettente: abbiamo solide basi e la voglia di ripensare la moda, spero che il libro aiuti a fare il punto e a pensare a come andare avanti. Io personalmente sto esplorando come incorporare il suono nella mia ricerca e voglio sviluppare l’aspetto performativo del mio lavoro. Il prossimo libro e una mostra sono già in cantiere, poi tra qualche mese uscirà un documentario per Sky Arte a cui ho preso parte, parlando di moda e generi. L’estate prossima presenterò un progetto audio-visivo sul pittore Caravaggio, in collaborazione con il produttore musicale Jodi Pedrali e il filmmaker Paolo Valenti.
Alessio de’ Navasques
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