La mostra Recycling Beauty della Fondazione Prada, a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica, costituisce una seducente panoramica sui modi in cui l’arte classica è stata, più o meno materialmente, reimpiegata nei secoli successivi al tramonto del mondo antico, e dunque nel Medioevo, ma anche nell’Età Moderna. Il meraviglioso spazio del Podium – così indicato per l’esposizione di sculture, con la luce naturale (rafforzata dai neon) che invade l’ambiente da ogni lato e con la possibilità di ammirare le opere da molteplici punti di vista – è disseminato di esempi emblematici di tale appropriazione dell’antico: un cameo con la famiglia di Costantino incastonato in una sfavillante legatura di evangeliario tardogotica, una sedia di latrina trasformata in trono papale, un’ara cineraria volta in acquasantiera, pavimenti cosmateschi composti di rotae e di tessere colorate provenienti da edifici antichi, statue classiche trasformate in figure di santi, sculture moderne nate dal completamento con braccia, teste, gambe di stupendi torsi antichi in materiali preziosi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, sempre all’insegna di una qualità e di un interesse elevatissimi.
Con uno sbalorditivo cambiamento di scala, alla congerie di piccole anticaglie, frammenti, statue a grandezza naturale segue, nella Cisterna, quel monstrum impressionante che è il ricostruito colosso di Costantino, statuona nata dal riuso e dalla rilavorazione di un precedente colosso di Giove o forse di Massenzio (a ricordarci che la pratica del reimpiego è di molto anteriore al Medioevo, ed era già radicata nel mondo antico). Dopo quella mostra nella mostra che è la sezione dedicata a Costantino si incontrano le due sezioni conclusive, riservate alle affascinanti peregrinazioni di antichità perillustri, quali i rilievi noti come i Troni di Ravenna e la Tazza Farnese.
IL CATALOGO DELLA MOSTRA RECYCLING BEAUTY
Il catalogo che accompagna la mostra è un volume di ampie dimensioni, riccamente illustrato, in cui sono raccolti riflessioni e approfondimenti sul complesso tema cui la rassegna è dedicata. Il ponderoso tomo articola, ordina e integra il ricco materiale presentato in mostra: alla libertà che viene lasciata al visitatore della rassegna di aggirarsi tra i reperti esposti nel Podium con una certa indipendenza (a detta di alcuni eccessiva, specie per chi arriva in Fondazione senza una certa preparazione pregressa), si sostituisce una scansione dei saggi e delle schede dei singoli pezzi articolata sulla base di una successione di antinomie, sotto ciascuna delle quali troviamo due saggi e diverse schede. Nella sezione Utility vs. Ostentation al contributo di Anna Anguissola sul reimpiego utilitaristico, motivato innanzitutto da ragioni di ordine pratico, fa seguito un saggio di Giandomenico Spinola su quei casi in cui il riuso sembra motivato da ragioni più complesse, e si procede a una consapevole ostensione dei materiali antichi. In Dispersion vs. Concentration Wolf-Dieter Heilmeyer si interroga sulle dinamiche che hanno regolato la progressiva dispersione delle antichità, mentre Chiara Franceschini riflette, a partire dalle vicende dei rilievi ravennati, sulle modalità che hanno portato i marmi erranti a trovare nuova ‘compagnia’ e dunque nuovi contesti e significati nelle nascenti collezioni. Arnold Esch, nella sezione Practices vs. Concepts, concentra l’attenzione sul concetto di spolia e sui differenti usi che nel Medioevo si sono fatti delle sopravvivenze del mondo antico; l’altra valva del dittico è costituita da un contributo di Giovanna Targia sulla ricerca storiografica intorno a questi temi nell’Otto-Novecento. Un totale di sette contrapposizioni e dunque di quattordici saggi, frutto del coinvolgimento di studiosi di grande livello, i cui contributi in questo volume rappresentano un importante momento di ricapitolazione della ricca letteratura sul reimpiego degli ultimi decenni, e l’occasione per presentare nuove riflessioni e nuovi spunti, di sicura utilità per le ricerche future. Alle sette sezioni centrali del volume seguono quattro surveys di soggetto extraeuropeo (sul reimpiego nell’Antico Egitto, in India, nelle civiltà precolombiane e nei territori islamici) e un ampio saggio di Claudio Parisi Presicce sul colossale Costantino (corredato di una scheda di Adam Lowe di Factum Arte che illustra gli aspetti salienti della ricostruzione del gigante). Tutto il complesso di saggi e di schede sin qui ricapitolato è preceduto dall’ampio saggio introduttivo di Salvatore Settis, in cui, facendo perno sulla Pisa dell’XI-XII secolo, centro di straordinaria importanza del reimpiego consapevole, ideologico, delle antichità romane, lo sguardo spazia attraverso le epoche e le aree geografiche, fino a toccare l’arte contemporanea, alla ricerca delle possibili spiegazioni e interpretazioni di un fenomeno tanto affascinante.
LA MOSTRA ALLA FONDAZIONE PRADA
Quanto detto sinora (in merito all’organizzazione e alla presentazione del materiale) è un primo punto che differenzia il catalogo dalla mostra, e che ce lo presenta come una indispensabile integrazione della rassegna. L’altro consiste nel ‘correggere il tiro’ in relazione a quegli aspetti del vasto fenomeno del reimpiego che meno bene si prestano a essere raccontati in una esposizione temporanea. Un tema come quello del reimpiego, ancor prima di riguardare il riutilizzo e la risemantizzazione di singoli oggetti, ha una dimensione ben più ampia, legata ai contesti architettonici e urbanistici. Pensiamo solo alla trasformazione in chiese di templi pagani. Questa dimensione è tuttavia difficile da rappresentare e da comunicare in mostra: si rischierebbe di affaticare il visitatore con una mole eccessiva di informazioni, oppure, con molti pannelli e fotografie, di ‘sporcare’ quella pulizia estetica cui l’allestimento della rassegna evidentemente ambisce (con ottimi risultati, specie nel Podium). È vero anche che così facendo c’è il rischio che il visitatore veda il fenomeno del reimpiego come qualcosa che riguarda principalmente oggetti di dimensioni piccole e medie (quegli oggetti che più facilmente si possono trasportare ed esporre) e non metta a fuoco il contesto generale. Il compito di raccontare questa natura di fenomeno ‘su larga scala’ del rimpiego medievale delle tracce materiali della classicità è assegnato nel catalogo, oltre che a riferimenti contenuti nei diversi saggi, a Living with Antiquities, un bell’inserto fotografico commentato, a cura di Alessandro Poggio, che, suddiviso in due parti, incornicia la porzione più consistente del volume con i saggi e le schede. Come lascia intuire il titolo, Living with Antiquities è un viaggio attraverso la Penisola alla ricerca di quei luoghi in cui ancora oggi è meglio evidente come nei lunghi secoli del Medioevo si vivesse su, in, con le imponenti vestigia dell’antichità, come se ne riutilizzassero le strade, i ponti, le porte urbiche, e poi i templi, consacrati alla nuova e vera Fede, e le colonne, i capitelli, le iscrizioni, fino a giungere ai frammenti.
IL CATALOGO IN INGLESE
Conformemente al titolo della mostra, e al fatto che Milano è la capitale del ridicolo itanglese che ci ammorba, il catalogo è in inglese. È vero che chi si interessa al tema della rassegna al punto da sfogliarne il catalogo ha di solito un’ottima preparazione culturale e una vasta conoscenza delle lingue, a cominciare da quella di Shakespeare; ed è vero che la traduzione italiana dei testi (ma dei soli saggi, non delle schede) è inclusa nel volume, nella parte conclusiva (testi in larga misura di autori italiani). Quindi, ecco, all’atto pratico poco danno, e tuttavia non vediamo perché il catalogo non potesse essere pubblicato in italiano con le traduzioni inglesi in appendice.
Fabrizio Federici
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