Perché “Realismo capitalista” di Mark Fisher è il libro più importante del XXI secolo?
Il giornalista britannico Aaron Bastani chiarisce le ragioni per cui il libro pubblicato da Mark Fisher nel 2009 ha anticipato molte delle dinamiche odierne, dall’impotenza di fronte alle crisi al dominio dei social media
In vista della sua pubblicazione nel 2009, lo scrittore e accademico Mark Fisher confessava alla sua compagna Zoe che sarebbe stato soddisfatto se il suo prossimo libro avesse venduto 500 copie. Quattordici anni dopo, e con una seconda edizione pubblicata lo scorso novembre da Zer0 Books, Realismo capitalista ha superato le centomila copie vendute soltanto in lingua inglese. Slavoj Žižek, forse il filosofo più famoso al mondo, l’ha descritto come “la miglior diagnosi della situazione in cui ci troviamo”, e Russell Brand ha prestato la sua voce per l’audiolibro. Su Google Scholar, il libro gode di oltre 4mila citazioni accademiche. Non male per uno come Mark Fisher che, mentre lo stava scrivendo, arrancava a trovare lavoro come docente.
Erano i primi mesi del 2010 quando m’imbattei in Realismo capitalista di Mark Fisher per la prima volta. Stavo sfogliando i soliti noti nella Waterstones di Gower Street, quando mi ritrovai tra le mani un libro di eclatante brevità con un titolo provocante. Lessi il libro qualche mese più tardi e l’esperienza fu prossima alla rivelazione. In mezza giornata, qualcuno che non avevo mai visto alla televisione o in stampa aveva non solo descritto lo spirito del nostro tempo ma fornito un registro del tutto nuovo per farlo.
È importante notare come Realismo capitalista fosse stato pubblicato, non a caso, immediatamente dopo la crisi finanziaria globale, proprio quando le premesse fondamentali del neoliberalismo erano state smentite come assolutamente false (un credo che affermava di preferire uno stato più ristretto aveva bisogno che i governi salvassero il sistema finanziario dal collasso). Era in questo vuoto, caratterizzato da una crescente coscienza politica e indisposizione ideologica, che il primo libro di Fisher, scritto all’età di quarantun anni, diventò d’improvviso un bestseller.
Nei diciotto mesi successivi, mentre il governo di coalizione era salito al potere e aveva introdotto l’austerity, le idee principali del libro erano diventate sempre più rilevanti. Quando nell’autunno del 2010 un movimento incredibilmente numeroso si era schierato contro la triplicazione delle tasse universitarie, Realismo capitalista rappresentava una guida su come avere la meglio sulle argomentazioni pro-mercato. Per la prima volta, lo slogan “there is no alternative” veniva rifiutato con polso fermo come semplice retorica ideologica. Mi ritorna in mente quando un funzionario di Universities UK, un gruppo di lobby che supportava le riforme governative, era stato rimproverato da uno studente durante un dibattito. “Possiamo lanciare una sonda nell’orbita di Marte, ma cancellare le tasse universitarie a quanto pare è irrealistico. No, non lo è”. Fisher aveva dato a migliaia gli strumenti ideologici per il contrattacco.
Ma oltre a essere una testimonianza storica di vitale importanza, Realismo capitalista porta ancora con sé un’insolita ventata d’aria fresca. A dirla tutta, dopo il fallimento di Jeremy Corbyn e Bernie Sanders da una costa all’altra dell’Atlantico, qualcuno potrebbe affermare che questo testo è ancora più rilevante oggi rispetto a cinque anni fa. Ciò non per negare le vittorie guadagnate dalla sinistra o il fatto che l’aggressione da parte della Russia abbia prodotto il ritorno al centro della scena della geopolitica, ma soltanto per sottolineare che i politici “mainstream” di oggi si sentono, ancora una volta, abbastanza sicuri di sé da liquidare chiunque etichettandolo come un ideologo (il che generalmente significa proporre una soluzione a qualcosa).
Ci sono tre idee in questo libro che rimangono particolarmente pertinenti. La prima è l’idea di “stalinismo di mercato”. L’argomento di Fisher è che il cosiddetto capitalismo di mercato sia comparabile allo stalinismo per via dell’“attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé” (pensate a quei bambini e ragazzi che studiano per passare gli esami piuttosto che per essere istruiti). Secondo gli stalinisti del mercato le iniziative “contano solo fintantoché possono essere spes[e] in termini di ‘comunicazione’”, dove Fisher suggerisce l’inutile progetto del canale Mar Bianco-Mar Baltico di Stalin come archetipo storico. Questa attitudine è il motivo per cui, ad esempio, il New Labour spesso non riesce a portare a termine grandi progetti d’infrastruttura dopo la tanto chiacchierata Millennium Dome. Il fatto, in questo e casi simili, non è che il governo non ne intravedesse il bisogno ma che non fosse in grado di accettare il lato negativo prodotto in termini di cattive relazioni pubbliche.
Dal 2009, il cosiddetto “stalinismo di mercato” è diventato lo standard del capitalismo contemporaneo. Se Stalin ha progettato un canale talmente basso da essere inutilizzabile al di là di fini turistici, Elon Musk è diventato l’uomo più ricco del mondo grazie alle relazioni pubbliche e la sua autoimprenditorialità. Nel frattempo, personaggi come Sam Bankman-Fried, Elizabeth Holmes e Adam Neumann sono emersi come la personificazione di un modello post-crisi sempre più incentrato sull’aspetto “comunicativo”, in nome del quale capitani d’industria sono spesso giudicati attraverso la propaganda politica, interpretata come risultato tangibile. Per Fisher, questi atteggiamenti hanno il loro analogo in una forma di governo tecnocratico e centrista, interessato in egual misura alla “produzione di ‘relazioni pubbliche’ non meno che dall’imposizione dei meccanismi di mercato”. Inutile dirlo, questo è il contrario della tecnocrazia; un sistema di ordine pubblico razionale, progettato per rispondere a dei problemi, e una particolare ossessione per le “relazioni pubbliche” sono di solito diametralmente opposti.
Un’altra idea è quella di “impotenza riflessiva”. Tale fenomeno pesa in particolar modo sui giovani, i quali riconoscono la gravità dei problemi sociali ed economici con cui hanno a che fare (con gli stipendi paralizzati e la crisi immobiliare, come potrebbe essere altrimenti) ma ciononostante sembrano essere rassegnati al loro destino. Secondo Fisher, questa rassegnazione non è affatto il risultato di apatia o cinismo, ma qualcosa di nuovo. “Sanno che la situazione è brutta”, scriveva in Realismo capitalista, “ma sanno ancor di più che non possono farci niente”. A quanto sembra questo “corrisponde a un’implicita visione del mondo” tra le generazioni più giovani, qualcosa d’inseparabile da un’ondata di depressione e ansia.
Il successo globale dei social media è ancora un altro fattore. Come Fisher scriveva nel 2006 sul suo blog, k-punk: “Non si tratta soltanto del tradizionale torpore adolescenziale, ma dell’inconciliabilità tra una giovane generazione post-alfabetizzata e ‘troppo connessa per riuscire a concentrarsi’, e le logiche limitanti e concentrazionarie di un sistema disciplinare in decadenza”. Queste parole sono state scritte prima dell’iPhone, per non menzionare Instagram e TikTok. Oggi siamo tutti dipendenti dalle tecnologie digitali e dai social media, mentre le problematiche sociali si mischiano e le élite politiche scivolano nella gerontocrazia. In combinazione, tutto questo determina un’impotenza riflessiva e l’impressione che anche un banale ribilanciamento dello status quo sia impossibile.
Intimamente legato a questo è la nozione di “edonia depressa”. Mentre la depressione è una condizione generalmente caratterizzata dall’anedonia (l’inabilità di provare piacere), l’edonia depressa, secondo Fisher, è caratterizzata da un’incapacità di fare altro tranne che attività gratificanti. Una diagnosi di questo genere descrive bene il mondo di oggi, tenendo tra l’altro in conto social media, un’epidemia di scommesse online, pornografia digitale e smartphone ‒con relativa dipendenza inclusa e progettata in prodotti di uso quotidiano. Ancora una volta, Fisher aveva previsto tutto questo con anni d’anticipo. “Essere ‘annoiati’ significa semplicemente venire esiliati dallo stimolo e dall’eccitamento comunicativo degli SMS, di YouTube, del fast food; significa essere costretti a rinunciare, anche solo per un momento, al flusso costante di una zuccherosa gratificazione on demand”. Qualcuno potrebbe leggere questo come un anziano che “sbraita contro una nuvola”, ma questa era un’importante intuizione che precorreva l’arrivo di TikTok, Instagram Stories e YouTube Shorts. L’originalità di Fisher è anche stata quella di collegare le trappole dell’economia dell’attenzione non soltanto con la nostra salute psichica ma, soprattutto, con il nostro più ampio malessere politico.
Oggi, sei anni dopo la sua tragica scomparsa, lo sforzo di Fisher di strappare il soggetto a questi impulsi è ancora più radicato nella nostra cultura ‒ sia che si tratti dell’appello a un “lavoro profondo” di personaggi come Cal Newport che del ritorno dello stoicismo in autori come Ryan Holiday. Al di là di quello che uno pensa su certi temi, rimane comunque il sintomo di una crescente consapevolezza che l’instancabile ricerca di gratificazione ha il potere di farci sentire miserabili. Proprio questo dovrà essere il luogo d’incontro per i socialisti e i più avveduti conservatori negli anni a venire (per quanto insolita possa essere l’ultima categoria). In verità, forse questo è il più grande complimento che si possa fare al libro di Fisher.
Realismo capitalista è il più importante documento che la sinistra inglese ha prodotto nel XXI secolo a oggi. La ragione di questo non è tanto la sua innovazione concettuale o la capacità del suo autore per la sistematizzazione (questa era l’ambizione per un lavoro successivo), ma piuttosto perché questo libro usa un registro popolare per descrivere l’indolenza alla base della nostra vita politica e sociale. Ammettere ciò era, e rimane, il primo passo per ogni azione costruttiva.
Aaron Bastani
traduzione di Alessandro Sbordoni
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Novara Media
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