L’archivio come strumento per mettere in discussione la storia. Il libro di Marco Scotini

Non accettare la storia così come ci viene raccontata, ma porla sempre in discussione, insieme all’idea di archivio. Nel suo saggio Marco Scotini legge l’opera di alcuni artisti dal punto di vista dell’“inarchiviabile”

Iniziamo da qui: “La storia ‒ lo ripetiamo ‒ è una costruzione modernista, gerarchica e verticistica. C’è sempre una dimensione teleologica che fa cominciare le cose da qualche parte e le dirige da unaltra, c’è una causa e un effetto corrispondente. Senza questo costrutto storiografico non ci sarebbe passato, presente e futuro”.
Partire di questa affermazione di Marco Scotini, presente nell’introduzione del suo ultimo libro LInarchiviabile. Larchivio contro la storia ‒ pubblicato da Meltemi per la collana Geoarchivi a fine 2022 ‒, permette di orientare il nostro sguardo verso una posizione teorica ‒ incentrata sull’analisi e sulla sperimentazione delle possibilità di un dispositivo contraddittorio e delle sue modalità di apparizione ‒ che ha assunto sempre maggiore centralità all’interno delle pratiche espositive ed estetiche contemporanee: l’archivio.
Il libro si presenta così all’interno del panorama teorico-artistico italiano proponendo una lettura fondamentale e necessaria dellarchivio come pratica estetica, come strumento capace di proliferazioni policentriche inesauribili, concatenamenti capaci di sviluppare e generare possibilità dentro e contro quel dispositivo narrativo che definiamo storia. Questo parallelismo discorsivo fonda le sue basi trovando da un lato la messa in causa del modello di una Storia monodirezionale, caratterizzata da una traiettoria ben definita e orientata al fissaggio delle unicità, mentre dall’altro la matrice discorsiva dell’archivio che comprende l’atlante, la mappa, il catalogo, l’inventario e un potenziale eversivo dirompente presente nell’operato artistico, composto da una moltitudine di soggettività, un general intellect per sua natura impossibile da ancorare.

Atelier Kozaric, MSU Museum of Contemporary Art, Zagabria, 2014, photo Anabel Zanze

Atelier Kozaric, MSU Museum of Contemporary Art, Zagabria, 2014, photo Anabel Zanze

L’ARCHIVIO SECONDO MARCO SCOTINI

Nato in funzione di una catalogazione da parte del potere e quindi storicamente dipendente dall’apparato burocratico e amministrativo, l’archivio si ritrova paradossalmente come strumento di rivendicazione per la liberazione di ruoli sociali, identità di genere, forme di subordinazione. È infatti proprio a partire dagli Anni Settanta italiani (presenti nella mostra LInarchiviabile del 2016 presso FM Centro per l’Arte Contemporanea, curata dall’autore), che la rivendicazione di altre temporalità possibili diventa secondo Marco Scotini una modalità operativa in campo sociale ed estetico. Dalla ripetizione “cattiva e ostinata” di Franco Vimercati di un modo di fare fotografia che ha più a che fare con la politica della rappresentazione di un’estensione del tempo fotografico, “frantumando limmagine singola in una moltiplicazione di frammenti temporali di differenza infinitesimale”, alla ripetizione del soggetto femminile di Marcella Campagnano, che attraverso una “teatralizzazione dei ruoli sociali della donna restituisce una radicale immagine del femminile, sottraendola alla prescrizione del visibile imposta dallegemonia culturale maschile”; fino ad arrivare a Piero Gilardi, o meglio ai Gilardi (al plurale, secondo Scotini), come emblema dei molti, delle soggettività plurime: dell’artista, dello scrittore, dell’attivista, del curatore, dello sperimentatore dei new media, dell’ecologista, dell’animatore teatrale capace di attuare una “carnevalizzazione del mondo per profanare i tempi e ribaltare i luoghi, tanto quanto le distribuzioni sociali”, attraverso una moltiplicazione delle possibilità d’azione e delle forme di vita, verso una coscienza ecologica.
Allo stesso tempo, l’ostinazione verso il tentativo di misurare elementi naturali e incommensurabili, come i granelli di sabbia di una spiaggia, il vento, l’aria, la pioggia, il suono del movimento delle formiche, è un’operazione concettuale messa in atto da Laura Grisi per esplorare l’inquantificabile, ponendo in discussione i limiti culturali di un sapere egemonico verso la rappresentazione dei fenomeni naturali.

Mao Tongqiang, Tools, installation view, 2008, courtesy artist and Prometeogallery by Ida Pisani

Mao Tongqiang, Tools, installation view, 2008, courtesy artist and Prometeogallery by Ida Pisani

L’ARCHIVIO, GLI ARTISTI E LA STORIA

A seguire, la proletarizzazione del tempo, le forme di produzione sociali ed estetiche all’interno del neoliberismo contemporaneo, il rifiuto di un ruolo identificabile all’interno di funzioni gerarchiche sono alcune delle tematiche affrontate da Gianni Pettena attraverso la sua concezione di ozio, inteso come temporalità alternativa rispetto a quella produttivista della società capitalista. La temporalità espressa al di fuori della produzione è de-archiviata in una delle opere filmiche cardine del lavoro di Harun Farocki, Workers Leaving the Factory, che prende il nome dal leggendario film dei fratelli Lumière concatenando sequenze provenienti da tutto il XX secolo di lavoratori che escono in massa dalla fabbrica all’ora regolamentata, attraverso un linguaggio operativo capace di rileggere e disancorare determinate immagini, riproponendole come un sistema rappresentativo.
Queste sono solo alcune delle modalità in cui l’archivio viene utilizzato come matrice e dispositivo per essere contro una storia prestabilita, anche insieme a saggi su Ugo La Pietra, Gianikian e Ricci Lucchi, Piero Gilardi, Alberto Grifi e un focus sull’est e su tutte quelle soggettività che sono emerse con la fine dell’Unione Sovietica, con la frattura verso un passato storico e la conseguente rimozione dell’identità culturale (Ivan Kožarić, Deimantas Narkevičius, Jaan Toomik, Marko Pogacnik, Vyacheslav Akhunov).
Ricostruire un discorso altro, ritrovare la parola muta allora, sono solo alcune delle possibilità che l’Inarchiviabile. Larchivio contro la storia presenta nella sua proposta teorica, includendo nel finale del libro anche un saggio sulle politiche della rappresentazione postcoloniale di Meschac Gaba, di “un apparire di cui non si è responsabili” e di una rivendicazione dell’istituzione museo come spazio deterritorializzato capace di attivare processi di riappropriazione, valorizzazione e ridistribuzione culturale. Infine, con l’artista cinese Mao Tongqiang viene esplorata un’idea di archivio che, come matrice forensica e documentale degli oggetti archiviati, non smette di interrogare la funzione dell’archivio come istituzione, proponendo una critica verso l’amnesia della storia e una denuncia della condizione umana quale strumento stesso di dominio.
Come impadronirsi nuovamente di tutte le cose che la differenza tiene lontane? Come fare dell’analisi storica il discorso della discontinuità continua e fare della coscienza umana il soggetto originario di ogni divenire e di ogni pratica? Come concepire il tempo in termini di atto/potenza e non più in termini lineari? Il tempo della moltitudine è quello stesso che ha alimentato l’idea di ‘popolo’?
Parafrasando Foucault: non accettare gli insiemi che la storia ci propone, se non per metterli subito in questione.

Arnold Braho

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