Il motivo – uno dei motivi, almeno ‒ per cui mi sono imbarcato in questa analisi del fighettismo è che, da sempre, riconosco il fighetto che è in me. Peter direbbe che siamo fighetti “contraddittori”: che contraddicono cioè la propria stessa natura, che lottano con essa e cercano in qualche modo di redimersi.
Fighetti in via di redenzione, in cerca di salvezza (dal fighettismo, e in generale).
Marco, giustamente, l’altra sera ha detto che se uno si occupa di arte e di cultura per forza è, di riffa o di raffa, un fighetto. E forse il problema è proprio questo, in fondo: che sono stati tagliati – anno dopo anno, decennio dopo decennio ‒ quasi del tutto gli accessi al mondo dell’arte per chi appartiene alle classi sociali meno abbienti. I poveri non sembrano avere alcuna chance, nelle condizioni attuali, di contribuire alla costruzione dell’immaginario collettivo (ammesso che poi l’arte contemporanea oggi faccia proprio questo, e francamente ho i miei dubbi in proposito). Da molto tempo, ormai, l’arte non è più un mezzo di ascesa sociale – e quindi manca quasi del tutto la rabbia a informare le opere.
La radicalità è una faccenda che ha molto a che fare con la lotta sociale. Per questo, (ri)creare le condizioni anche economiche e sociali oltre che intellettuali per far emergere un pensiero e una ricerca autenticamente radicali, soprattutto da parte di chi è svantaggiato, è una delle istanze più urgenti oggi (per questo, assolutamente non riconosciuta).
L’innovazione autentica e non di facciata, inoltre, si riflette sempre in un non-stile: un non-stile che poi, una volta codificato, diventerà ovviamente stile e iper-stile (pronto per essere copiato, replicato, modulato da schiere di epigoni e imitatori), ma che per un certo periodo è in grado di riflettere in modo consistente l’approccio e l’attitudine orientati al nuovo. Se ci pensiamo, è successo così per tutti i movimenti significativi degli ultimi centosessant’anni: impressionismo, postimpressionismo, cubismo, neoplasticismo, suprematismo, costruttivismo; dada, metafisica, surrealismo; espressionismo astratto, informale; be-bop, free jazz; new-dada, pop art, minimalismo, antiform, land art; punk, hip-hop, grunge, techno, Intelligent Dance Music (IDM). Sono tutti nati come non-stili che mettevano in discussione forma e linguaggio degli stili precedenti, e che rifondavano così le basi stesse dell’opera d’arte.
Il fighetto, invece, si appoggia volentieri alla sicurezza dello “stile”, alla certezza del già noto, del linguaggio praticato: è perfettamente a suo agio nella lingua conosciuta, con la quale può realizzare le sue infinite variazioni, mentre è a disagio nell’ignoto, nell’imprevisto del non-stile. I passi falsi, i tentativi, le ripartenze non gli/le sono congeniali, perché contraddicono in ogni punto il desiderio di essere accettati, di far parte del gruppo: di essere come gli altri.
Il non-stile, poi, ha questo che proprio non va giù al/alla fighetto/a: è lo strumento ideale per costruire mondi. E il fighetto, come sappiamo, non vuole affatto costruire mondi: vuole solo abitare, nel modo più confortevole possibile, quelli che già ci sono.
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Tutto sommato, durante l’Università e il dottorato non ho avuto grandi contatti con i fighetti. Alla Scuola Normale costituivano una sparuta minoranza, quasi non ce n’erano in effetti, e comunque quelli che c’erano sceglievano il basso profilo (a ripensarci oggi, quella era forse un’oasi tra fine anni Novanta e inizio Duemila: oppure, più probabilmente, una riserva).
Nell’ultimo quindicennio, invece, mentre mi addentravo nel mondo dell’arte e della critica, mi sono reso conto progressivamente – con orrore, devo ammettere – che non solo i fighetti in questo territorio c’erano eccome (erano infatti ammessi, apprezzati, coccolati, quando per me l’atteggiamento giusto sarebbe stato quello di proibire loro anche solo l’ingresso…) ma spadroneggiavano.
I fighetti stavano vincendo.
Me ne sono accorto, anno dopo anno, alle inaugurazioni, alle fiere, alle biennali. I fighetti erano dappertutto, e stavano elaborando – sulla scorta della generazione di autori emersi negli anni Novanta, soprattutto a Milano – un loro linguaggio e un loro stile ben precisi, a modo loro solidi. Che piacevano al “sistema”, ai direttori di museo, ai curatori e ai collezionisti.
Questo linguaggio e questo stile sembravano non avere nulla, ma proprio nulla a che fare con ciò che a me piaceva e che andavo (vado tuttora, in effetti) cercando nell’arte. Coraggio, spericolatezza, sarcasmo, visionarietà e pericolosità. Sperimentazione. Stranezza. Innovazione radicale.
A vent’anni, avevo deciso di occuparmi per tutta la vita di storia e critica d’arte perché i miei eroi erano Vincent van Gogh, Egon Schiele, Paul Klee, Jackson Pollock, Willem de Kooning, Philip Guston, Alberto Burri, Robert Rauschenberg, Mario Schifano, Franco Angeli, Joseph Cornell, Frida Kahlo, Eva Hesse, Lynda Benglis, Chris Burden, Walter De Maria. E volevo trovare i loro eredi.
Adesso, saltava fuori che eredi in giro non ce n’erano; inoltre, quei personaggi erano considerati al massimo con un misto di condiscendenza e compatimento.
La gente attorno a me (i miei coetanei!) improvvisamente impazzivano per video incomprensibili, papi abbattuti da meteoriti e bambini impiccati, squali imbalsamati e teschi ricoperti di diamanti, caramellone sbrilluccicanti a forma di cuore, aerei capovolti, tizi che si camuffavano come il proprio padre, cartacce e legnetti buttati per terra… E io cominciavo a chiedermi, esattamente come il Dwight Manfredi di Tulsa King: “Ma che cazzo sta succedendo al mondo (dell’arte)?”
Confesso che, in buona parte, me lo sto ancora chiedendo.
Christian Caliandro
Le due parti di questo testo sono state pubblicate con i titoli “Intermezzo I” e “Intermezzo II” nel volume “Contro l’arte fighetta”, Castelvecchi 2023, appena pubblicato nella collana Fuoriuscita.
Christian Caliandro – Contro l’arte fighetta
Castelvecchi Editore, Roma 2023
Pagg. 160, € 16
ISBN 9788868267841
http://www.castelvecchieditore.com
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