Il libro che fa il punto su come vivono gli artisti
È firmato da Santa Nastro il volume edito da Castelvecchi che approfondisce un tema spinoso: la maniera in cui gli artisti fanno fronte alla loro professione. Un libro-inchiesta che affianca ai dati statistici le interviste sul campo ai diretti interessati
Di questo libro di Santa Nastro (Napoli, 1981) si potrebbe parafrasare il titolo ‒ Come vivono gli artisti? ‒ con la domanda: di cosa vivono gli artisti? La prospettiva di successo nel campo delle arti da tempo in Italia viaggia sul filo dell’ambiguità innescata dal sostantivo inglese fame, ossia “fama”, nel suo significato in italiano; sicché, leggendo con attenzione il libro-inchiesta di Santa Nastro, ci s’accorge che, non parlando mai di fama, cioè del successo, del riconoscimento, del riscontro sociale (un tempo si assumeva “per chiara fama”), l’autrice parla spesso di “fame”. Sebbene in termini di perifrasi, s’intende, questa condizione è sufficiente a inquadrare una sorta di “daimon” della sopravvivenza professionale. Detto questo, l’articolazione dell’inchiesta di Santa Nasto è doppia. Corredato dei disegni di Marco Raparelli, il libro ha un carattere sia statistico che testimoniale.
IL LIBRO DI SANTA NASTRO SU COME VIVONO GLI ARTISTI
Santa Nastro riporta le cifre offerte dall’associazionismo nato negli ultimi anni per tutelare e promuovere un collegamento tra mondo delle istituzioni, mondo della finanza e artisti, una formula sindacale e di intelligence che registra un’attività raramente associata a un profilo professionale definito, spesso celebrata dall’informazione che regola e orienta la percezione dell’artista da parte del pubblico. Da anni, infatti, il binomio arte-finanza determina la cornice entro la quale si attua l’emancipazione dell’artista da un pregiudizio sociale che lo giudica un creativo stravagante, intrattenitore e bizzarro intellettuale membro indispensabile della corte dei potenti (si legga a riguardo A. Dal Lago, S. Giordano, L’artista e il potere, il Mulino 2014). “Specialisti senz’anima”, direbbe Max Weber, che hanno caratterizzato l’esclusività dell’arte contemporanea, che Santa Nastro spoglia dall’introversione elitaria e interroga sulle esigenze ordinarie, riportando l’individuo artista alla fragile dimensione umana, oscillante tra riconoscimento e fallimento nel sistema dell’arte. Questo mondo, non più sovrinteso dalle istituzioni e tutelato da patti fiduciari, dipende sempre più dalla relazione con un garante remunerativo occasionale, eventuale. Gli appelli emergenziali, a tal riguardo, restano lettera morta e proprio da ciò si deduce, in fin dei conti, che non è mai esistita una tutela di sistema. L’artista contemporaneo, non più operatore estetico e nemmeno acclamata star, finisce di essere sia il flâneur de Il brevetto del geco (Tiziano Scarpa, 2015), sia l’ombroso soggetto descritto da Tommaso Labranca nel memorabile Vraghinaroda (2016), l’artista di cui parla Santa Nastro, con cui parla Santa Nastro, è un mediatore tra un’esistenza ordinaria e la possibilità straordinaria che un potere economico legittimi e riconosca la validità di un lavoro.
PAROLA AGLI ARTISTI
Un rapporto di forze che permette solamente al 27% degli artisti di vivere del proprio lavoro (fonte: Art Workers Italia) e che rileva un profilo professionale labile, continuamente da ritracciare su uno sfondo mutevole. Sta di fatto, che come dice a Santa Nastro l’artista Grazia Toderi: “Il ‘sistema’ che ha rubato la parola ‘Arte’ continua a proclamare la sua crescita bulimica in nome dell’arte, ma al servizio dell’economia, del turismo, dell’intrattenimento, della comunicazione, della sociologia […]”. In queste parole c’è espressa la natura della relazione tra amministrazione e creatività, tra strategia di marketing e operatività artistica, tra manipolazione dei contenuti e dramma esistenziale, sicché l’artista sembra dover scegliere tra desiderio di libertà e libertà di desiderare. Dalla voce degli artisti si capisce, infatti, che l’originalità del linguaggio ha perso importanza per via della fabbricazione corrotta da un meccanismo di incessante superficialità, un meccanismo alimentato dalla mendacità di una manipolazione a fini commerciali, che usa l’arte per supportare l’immagine confortante di una società relativamente prospera. Questo fenomeno è possibile poiché si coltiva e si cristallizza una idea preconcetta di arte contemporanea basata, essenzialmente, sul “come è stata fatta” e quanto costa, piuttosto che su cosa quest’opera crea. Il carattere evenemenziale dell’arte risulta funzionale a un campo dell’informazione che ridefinisce il desiderio rendendolo noncurante dello sguardo critico, un desiderio che affossa ogni presupposto costruzionista.
Il libro-inchiesta di Santa Nastro, che parte dal termine post quem della pandemia, riporta la dinamica di questa mutazione considerando emblematiche le esternazioni di Giuseppe Conte sulla missione divertente dell’arte e la poca attenzione dei media sulla improvvisa dipartita di Germano Celant, morto a causa del virus pandemico. Fenomeni tristemente prevedibili da quando persiste l’idea che l’arte contemporanea è un evento spettacolare effimero che fa esistere l’artista solo nell’attimo della sua celebrazione e non nella vita di tutti i giorni.
LA PRECARIETÀ DELL’ESSERE ARTISTA
Considerata, quindi, questa logica, Nastro ci fa capire cosa accompagna l’elaborazione di un progetto, sia esso pubblico o privato, cioè una logica promozionale, “turistica”. Non stupisce, ad esempio, che sia stata proprio una mostra dal titolo prosaico, La rivoluzione siamo noi. Collezionismo italiano contemporaneo, (Piacenza, 2020) a rappresentare la vitalità del mondo dell’arte del nostro Paese sotto pandemia. In un sincronismo ferale, la presunta vitalità dell’arte si trovò a far i conti con la morte reale del pubblico, facendo, suo malgrado, di questa mostra un’esibizione di muti trofei in una teca di un silente club esclusivo. Ancora una volta le esistenze degli artisti restarono ben celate dietro l’evento. Nel raccontarsi a Santa Nasto, sono loro a denunciare la precarietà delle fonti di reddito, i problemi della contingenza e ribadiscono quanto il collezionismo sia diventato un sostentamento tutt’altro che rassicurante. D’altronde l’opera d’arte, come prodotto di un’attività e termine di riconoscimento oggettivo di un ruolo sociale, è spesso l’ultima a emergere come fatto culturale pregnante. L’opera sembra essere sempre sotto ricatto delle condizioni che la rendono realizzabile. Visibile solo in una immagine, l’opera tende a reggersi su un progetto che è premessa dell’esistenza dell’artista, una premessa le cui caratteristiche determinanti sono situate in gran parte fuori dalla prassi specifica dell’arte, in un luogo dove raramente viene alla luce la singolarità creativa, dove quasi sempre regna l’omologazione ad argomenti di moda. Nella maggior parte dei casi, l’oggetto sottostà al progetto inteso, quest’ultimo, come concomitanza virtuosa di interessi. L’opera prende forma e, in pratica, si realizza principalmente nel momento della sua messa in scena. Si capisce ciò dalle constatazioni di Fabrizio Bellomo quando afferma che: “La presunta e possibile – e per nulla scontata – sensibilità di ognuno su determinate tematiche è stata inquadrata e statalizzata e quindi standardizzata attraverso precise richieste – come da bando – di attinenza a determinate tematiche […]” (p. 143). Questa realtà imporrebbe la sfida continua tra norme imposte e ricerca personale, uno sforzo in cui l’artista cerca in pratica di far prevalere la seconda sulle prime, e se questa prevaricazione sembra controllata da una supervisione curatoriale, sovente si scopre proprio nel curatore l’alleato più fidato dell’ente finanziatore e promotore, il soggetto che emette il bando. In questo caso si verifica quello che gli artisti Iaconesi e Persico denunciano come “progettifici”, che sarebbero “quelle entità o soggetti che creano i minestroni di artisti e creativi secondo le Keywords del momento, come se fossero contenuti.” (p. 147).
ARTISTI E POST PANDEMIA
D’altro canto, ogni artista di questa generazione post pandemica esce da uno stato di emergenza con una consapevolezza, l’immagine del proprio lavoro sta abbandonando la verità insieme alla sua materialità. Nell’epoca degli NFT è inevitabile la consapevolezza, da parte degli artisti, dell’ingresso in un’era di confusione fra transazione finanziaria e transizione immaginativa, nella misura in cui la fluidità della prima diventa la ragione della seconda. In questo modo la vita degli artisti s’apre a un commercio che esclude la negoziazione con l’esperienza estetica. Ciò incide non solo su una metodologia di lavoro, ma anche sull’approccio del pubblico che lo qualifica intellettualmente. La pandemia, abolendo l’esperienza estetica, sembra aver raffinato il ricorso alla promozione digitale e determinato la trasformazione della conoscenza in informazione. Il mutamento dell’evento localizzato in evento condiviso sembra di fatto aver vanificato le speranze di Sergio Risaliti che, nell’aprile del 2020, scriveva: “Un cambiamento che sarà causa di altre epidemie psicologiche morali, un terremoto sociale di cui oggi non possiamo ancora giudicare la scala Mercalli. Domani, ancora più che oggi, avremo bisogno di guardarci più nello specchio delle opere d’arte e della letteratura” (p. 105). Il mondo dell’arte post pandemico sembra guardarsi nello specchio della rete. Ciò ha allargato il divario tra opera e immagine. L’opera reclama sempre più forte la sua autonomia di mondo, l’immagine si insinua sempre più silenziosamente e organicamente nella idea di arte quale unico e solo riscontro della sua presenza, in questo modo il pubblico non riconosce più l’esistenza dell’artista dietro quell’immagine.
Marcello Carriero
Santa Nastro – Come vivono gli artisti?
Castelvecchi Editore, Roma 2022
Pagg. 224, € 18,50
ISBN 9788832907421
http://www.castelvecchieditore.com/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati