Nell’arco di sette anni, tra il 1977 e il 1984, Luisa Cividin e Roberto Taroni vivono un sodalizio artistico breve ma estremamente prolifico. È l’epoca del post Sessantotto, durante la quale l’Occidente continua a confrontarsi con pratiche artistiche sovversive dei generi e delle discipline, resistenti al linguaggio del capitalismo e alle sue gerarchie. Le innumerevoli opere su cui Taroni e Cividin intervengono travalicano anch’esse i confini dell’arte intesa come esperienza rassicurante, autoreferenziale e normativa, sperimentando e contaminando performance art e installazioni site specific, videoarte e teatro, cinema e arte visiva. Il risultato è un microcosmo di pratiche multimediali in cui lo statuto dell’immagine stessa viene messo in discussione, le condizioni dello spazio e del tempo dilatate sino a inglobare possibilità inattese.
Il ‘68 e l’arte come pratica di resistenza
Le ricercatrici e curatrici Jennifer Malvezzi e Flora Pitrolo ripercorrono con attenzione ed estrema cura il contesto in cui queste opere fioriscono. Il catalogo, edito da Silvana Editoriale, è il primo lavoro completo e organico che ricostruisce una collaborazione così generativa e allo stesso tempo poco indagata dalla critica e dalla teoria dell’arte. Anche se il modus operandi di Cividin e Taroni richiama apparentemente quello di performer a loro coevi come Vito Acconci, Robert Morris e Bruce Nauman (soprattutto per le ripetizioni ossessive di gesti semplici e quotidiani), nel duo c’è una tale stratificazione di sensi e, insieme, una tale destrutturazione di immagini, tempo e spazio, un gioco così sofisticato di richiami e autocitazioni, da rendere quella parabola artistica di sette anni un unicum nella storia della performance art.
Destrutturare tempo, spazio e immagini
Tempo reale (1979), Come chiarità di un diamante (1981), Evento 3332 (1978), Splatter (1984), i cicli di Intervallo al Limehouse (1979-1980), Profligate Ubiquity (1980) sono opere-evento complesse che negli anni si fanno via via sempre più imperscrutabili. Happening quasi caleidoscopici, in cui i confini tra reale e finzione sfumano in un inanellarsi di luoghi che allo stesso tempo sono quelli della performance dal vivo (con spettatori e i performer Cividin e Taroni all’opera); ma che sono anche gli stessi luoghi ripresi precedentemente dalla videocamera e proiettati durante l’evento su supporti che tendono a deformare le immagini, a renderle sempre più opache e illeggibili (per la natura del medium o per interventi diretti dei performer o, meglio, attanti). Come le immagini proiettate su una parete di ghiaccio, che restituiscono figure diverse via via che trascorrono i minuti e la superficie si assottiglia e annulla in rivoli d’acqua. O quelle precedentemente alterate tramite l’uso di slow-motion, timelapse o ralenti che vengono proiettate su uno schermo incendiato da Taroni o che vengono interrotte dal lampeggiare intermittente di luci al neon.
Il cinema come “scultura in divenire” nella pratica di Cividin e Taroni
Come ricorda Flora Pitrolo in uno dei suoi contributi per il catalogo, in un’epoca in cui finalmente il cinema riesce a svincolarsi dalla subordinazione al teatro e alla letteratura, Cividin e Taroni segnano una tendenza contraria, facendosi portavoce di una “pratica di rimediazione”: attraverso effetti di montaggio audiovisivo e la contaminazione con gli altri medium, il cinema si fa quasi “scultura in divenire” nei lavori del duo, materia cioè malleabile e generatrice di infinite possibilità.
Edoardo Pelligra
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