Un viaggio nell’arte attraverso i corpi delle donne. Roberta Scorranese racconta il suo nuovo libro

“A questo serve il corpo” è saggio e romanzo insieme, e offre una sguardo nuovo sulle opere di grandi artisti, capaci di indicare la strada per connetterci con una fisicità fatta di accettazione, rinunce, dolore, felicità

A cosa serve un corpo? Nel tentativo di capirlo, Roberta Scorranese (Valle San Giovanni, 1972) acuisce lo sguardo, impara a sentire attraverso gli occhi. Un’operazione che si rafforza nel confronto con l’arte, e con le opere di quegli artisti che hanno rappresentato il corpo delle donne, in una tensione dialettica che dalla tendenza all’idealizzazione muove verso un’indagine più intima del mondo femminile, cogliendone la verità, la luce, le lotte interiori. Tra ricostruzione storica e finzione, biografia e narrazione, A questo serve il corpo. Viaggio nell’arte attraverso i corpi delle donne (Bompiani, 2023) è un libro in cui la scrittrice e giornalista abruzzese esplicita la sua vicinanza con l’arte, funzionale a raccontare una storia di genere che si nutre della quotidianità vissuta dalle donne nell’arco di secoli. Al contempo, “solo cercando di capire il corpo, si riesce a cogliere il senso profondo di certe opere d’arte”. Abbiamo cercato di capire con l’autrice perché.

Roberta Scorranese, A questo serve il corpo, Bompiani, 2023
Roberta Scorranese, A questo serve il corpo, Bompiani, 2023

Intervista a Roberta Scorranese

Nel libro parti dal presupposto che il corpo abbia un potere generativo per avviare una riflessione sul corpo delle donne. Da dove nasce l’idea?
Paradossalmente, nasce dalla mia frequentazione del mondo dell’arte. Vado alle mostre, visito le gallerie. E ho notato che spesso vediamo le opere senza guardarle. Tedi Asher, neuroscienziata che lavora al Peabody Essex Museum (Pem) di Salem, nel Massachusetts, ha calcolato che in media ci fermiamo meno di un minuto di fronte a un quadro. Questa difficoltà nel guardare la ritrovo anche riferita al nostro corpo. Lo guardiamo davvero? O finiamo sempre per considerarlo una “tela” sulla quale proiettare le nostre attività cerebrali? Spesso è una vetrina, più spesso ancora è un peso. Ma il corpo, come ci insegna la storia antica, è un tempio da esplorare, onorare. Il corpo è l’ultimo baluardo di una colonizzazione del mercato che può conquistare le nostre teste (con gli algoritmi) o il nostro cuore (con una industria culturale fondata sulle emozioni, spesso sulle emozioni forti). Ma il corpo no. Per avere un mio braccio devi tagliarmelo. O bisogna stabilire un prezzo, come racconto in una delle storie del libro, quella di Corinna, che ha scelto di vendersi. E qui si genera una grande domanda: quanto è in vendita il nostro corpo, oggi, nella mercantilizzazione dell’immagine sui social?

Scrivi di un corpo femminile “destinato a essere sempre vigile”.
La stanchezza delle donne non è una iconografia ricorrente nella storia dell’arte, anzi. C’è il sonno, certo: ci sono le donne assopite in un torpore erotico, penso alla Venere dormiente di Giorgione, o al sensualissimo Il sonno di Courbet. C’è anche il sonno di Arianna, nel mito greco, ma quello non è un sonno stanco, è piuttosto (secondo alcune versioni) un sonno drogato. Io cercavo la stanchezza, la spossatezza consapevole, quella condizione che tutte noi proviamo qualche volta. La stanchezza non offre spunti narrativi, nemmeno in un tempo, come il nostro, in cui ci si sta riappropriando – a fatica – delle fragilità. C’è, anzi, la narrativa della donna che “fa tutto”, della donna coraggiosa, della donna che non si ferma. Invece la stanchezza è un linguaggio umanissimo che il nostro corpo sa comporre. Io l’ho vista nella Maddalena penitente di Caravaggio, dove il torpore della donna – forse una prostituta – diventa soggetto di una rottura clamorosa: la peccatrice non ha bisogno di pentimento, non deve fustigare sé stessa, non ha bisogno di braccia levate verso il cielo. Sta lì e basta. In-guardata, in-giudicata.

Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma
Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma

Cos’è un corpo felice? Esiste?
Ho rispettosamente “rubato” questa espressione a Dacia Maraini, che ha intitolato Corpo felice uno dei suoi libri di maggiore successo, per darle un senso diverso. Questa definizione mi è venuta in mente la prima volta che ho visto La baigneuse blonde di Renoir. È un corpo nudo, ma non sfrontato, perfettamente incastonato nel paesaggio che le sta intorno. Un corpo felice è anche quello della Fornarina di Raffaello, che nasceva da una cultura rinascimentale raffinatissima, figlia della corte di Urbino: la nudità come verità filosofica e l’amore come conquista suprema dell’animo. Ho detto “Raffaello” non a caso, perché a un certo punto della sua vita Renoir scoprì Sanzio e i corpi delle sue donne si ispirarono a una classicità armoniosa. Anche le divinità di Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano sono per me corpi felici, perché dietro il nudo c’è la cultura veneziana del Cinquecento, ricca di rimandi filosofici e dove l’eros aveva una sua profondità. È sempre Tiziano, però, a operare la rottura, con la Venere di Urbino: una donna nuda e consapevole della sua nudità, che ti guarda negli occhi e in una ambientazione che nulla ha a che fare con il mito, sembra un palazzo cinquecentesco. Una lezione, questa, che poi Édouard Manet farà sua con Olympia e allora quel corpo smetterà di essere felice per diventare un corpo che ci interroga, che si rivolge a chi guarda, che chiede qualcosa.

Tiziano, Amor Sacro e Amor Profano
Tiziano, Amor Sacro e Amor Profano

L’importanza di saper guardare

Tra le pagine si apprezza una grande densità di riferimenti visivi e letterari, che sostengono e indirizzano la narrazione, come se il pensiero visivo orientasse il fluire della narrazione. Come ci si prepara per scrivere un libro del genere?
Diciamo che ho la fortuna di occuparmi di questi temi e lo faccio da tempo. Ho letto, naturalmente, numerosi libri di autrici e autori specializzati, quindi monografie e in particolare i libri sullo sguardo, dai saggi di John Berger a quelli di Georges Didi-Huberman, fino a Jean-Luc Nancy. Ma quello che mi interessava è un approccio diverso al mondo dell’arte, che trovo distorto nella divulgazione. Ci sono gli apocalittici che prendono spunto da mostre o da scelte museali per farne invettiva politica e ci sono gli integrati che impongono lezioni. Ma dov’è lo spazio per quella pratica che dovrebbe essere connaturata all’arte, cioè la contemplazione? Da quanto tempo non ci fermiamo davanti a un dipinto o a una scultura o a una installazione con occhi liberi, senza commenti, senza lezioni, senza critiche, senza telefonino pronto a scattare foto? È la libertà dello sguardo che mi interessa, è il recupero di un modo diverso di vedere le cose. Perché tutti possiamo metterci di fronte a un Caravaggio e, semplicemente, lasciarci rapire dalle sue scene (dico “scene” non a caso, data la qualità cinematografica del suo lavoro, come sottolineava Giulio Carlo Argan). Consiglio un libro uscito da poco, scritto da uno dei più importanti curatori al mondo, Hans Ulrich Obrist, si intitola A che cosa serve l’arte (scritto con Gianluigi Ricuperati e pubblicato da Marsilio Arte). C’è l’idea di arte come vita, come libertà, come gioia, come divertimento, come connessione forte con il mondo. Una risposta ideale al seminale saggio di Arthur Danto, Che cosa è l’arte?, dove si esponeva il concetto bello e difficile di “mente aperta” di fronte a un’opera.

Il mondo dell’arte è chiamato in causa per motivi diversi: c’è sicuramente la volontà di mettere in luce una serie di comportamenti sociali, convenzioni e storture attraverso l’immaginario iconografico storicizzato dagli artisti. Ma si guarda anche alla capacità dell’arte di rappresentare oltre la morale comune temi come la vecchiaia, la maternità…
Certo, è questo il “gioco” che tiene tutto il libro. Proprio perché cerco di avvicinarmi all’arte esattamente come da anni mi avvicino al mio corpo, cioè in ascolto, senza giudizi, con “mente aperta”, appunto, le opere che incontro non mi appaiono soltanto come fredda iconografia oppure come elemento di rigoroso studio. La Madonna del Parto di Piero della Francesca evoca una pienezza interiore che fa da contraltare al ventre. Il corpo senza età di Marthe Bonnard, che il marito ritrasse sempre con le sembianze di una ventenne, è lo spunto per parlare della rappresentazione del corpo femminile. Su tutto, però, c’è una riflessione che abbraccia il modo con il quale guardiamo.

La Madonna del Parto, di Piero della Francesca
La Madonna del Parto, di Piero della Francesca

In questo processo interpretativo dell’arte, che passa per una profonda connessione di chi osserva con i corpi delle donne ritratte, ma anche dalla conoscenza del contesto sociale di riferimento e della biografia degli artisti presi in esame, non c’è il rischio di caricare le opere di significati che non hanno per sostenere una tesi?
Grazie per questa domanda, perché mi permette di spiegare il senso del libro. Non si tratta di attribuire questo o quel significato a una scultura o a un dipinto, ma di guardarlo con occhi diversi. È l’opera che cambia me, non sono io che cambio l’opera con il mio giudizio, con i miei commenti, con le mie critiche (penso all’occhio viziato con il quale ci avviciniamo a molte opere d’arte contemporanea, con il risultato che pochi sanno apprezzare una installazione di Koons o di Eliasson). Non sono io che prevalgo sull’opera, anzi, mi lascio trasportare nella molteplicità dei suoi linguaggi. Tanto è vero che alle esplorazioni saggistiche affianco anche dei racconti, brevi scritti di finzione dove il corpo femminile si muove al centro di un tema, che può essere la stanchezza, appunto, o la rinuncia, o il sesso o la maternità.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #17, 1978
Cindy Sherman, Untitled Film Still #17, 1978

Sull’amore, il dolore, l’accettazione di sé

Nel libro c’è un riferimento costante all’amore, che plasma il nostro stare al mondo, sin nel modo in cui dà forma al corpo. Persino capace di farlo sparire, per poi sublimarlo. Cos’è l’amore?
Do una definizione che si lega alla domanda precedente, perché qui azzardo (solo per i lettori e le lettrici di Artribune!) un parallelo tra l’amore e l’arte. Ho sempre pensato all’amore in termini di “riconoscimento”. L’amore non lo decidiamo noi, ci “arriva” dallo sguardo dell’altro o dell’altra. Odisseo torna a casa ma non basta, bisogna che venga riconosciuto per tornare a essere sé stesso. E quando questo guardare l’altro viene forzato, quando diventa ossessione o possesso, allora arriva la morte, pensiamo alla favola di Amore e Psiche. Possiamo metterci in mostra, dare dimostrazioni di pazienza o tenacia o possiamo metterci a piangere tutte le lacrime che abbiamo, ma fino a che qualcuno non ci riconosce noi non saremo amati. Penso che un passaggio molto simile avvenga con l’arte, e non al contrario come si potrebbe pensare, cioè che è il nostro sguardo che decide che cosa è arte e che cosa non lo è (è un problema, questo, che con grande onestà intellettuale si pone anche Danto). No, penso che sia l’opera a riconoscerci. Ad accoglierci per quelli che siamo, con le nostre fragilità, con le nostre lacune, con quello che abbiamo fatto fino a quel momento e quello che non abbiamo fatto. Penso a un libro bellissimo che è Dire luce, della filosofa María Zambrano: lei si avvicina a Picasso o a Zurbaràn non con la supponenza di un critico, ma con la bellezza di chi cerca la luce. È così che dovremmo avvicinarci all’amore: nudi, come appena nati, pronti a lasciarci accogliere e in qualche caso raccogliere. E, spostando il territorio, solo allora capiremo che è l’arte a parlarci, non servono o quasi le nostre parole. Renoir, il pittore, un giorno disse al figlio, il regista Jean: “La pittura non si racconta, si guarda. A cosa servirebbe, se anche ti dicessi che le cortigiane di Tiziano fanno venire voglia di accarezzarle?”.

La donna che si guarda è prima di tutto guardata: per questo dobbiamo imparare come mostrarci, si dice in un passaggio del libro, sempre drammaticamente attuale alla luce delle polemiche che si scatenano ogni volta che il corpo di una donna viene violato. E il riferimento corre ai travestimenti di Cindy Sherman, ma anche alla rappresentazione non convenzionale della Susanna di Tintoretto. C’è un modo per liberarsi da questa dinamica?
Credo che non ci sia se non quello di coltivare un nostro personalissimo sguardo, come fa la Susanna di Tintoretto, che, guardata, si osserva allo specchio e assorbe il suo di sguardo, perdendosi dentro i suoi stessi occhi. È un altro messaggio che provo a trasmettere, con questo libro: tornare a guardarsi, cosa molto più difficile di quanto immaginiamo. Pensiamo solo ai mesi trascorsi al chiuso delle nostre case, in pandemia: quanti di noi non sopportavano più questo continuo confronto con sé stessi, orfani di uno sguardo altrui che ci definisce e dal quale ci lasciamo definire con una sorprendente condiscendenza? Blaise Pascal aveva intuito che la causa di tutti i nostri problemi è che non sappiamo starcene chiusi in una stanza e con questo intendeva che non sappiamo fare i conti con noi stessi. Se sentiamo il peso dello sguardo altrui – naturalmente non sto parlando di violenza, ma di sguardi carichi di giudizio – forse è il momento di rafforzare i nostri occhi. E di cominciare a guardarci più che con amore con la giusta pietà.

Roberta Scorranese
Roberta Scorranese

Il corpo definisce la nostra identità anche attraverso il dolore fisico (il riferimento più potente, in questo caso, è alla vicenda di Frida Kahlo), la negazione di sé, il rifiuto (per esempio del cibo, come si racconta in un altro capitolo). Ma mi ha colpito il passaggio sulla “forza della possibilità”: in potenza possiamo essere tutto e il corpo è la nostra chiave di accesso a questa libertà?
Penso che il corpo apra molte possibilità, a patto di non chiudersi di fronte al dolore. La lezione di Frida è questa: ha preso un dolore fisico, ne ha fatto una raffinatissima forma di comunicazione (ancora oggi l’immagine di Kahlo è ricorrente nel mondo più pop, dalle tazze alle magliette alle canzoni) e ha vinto. Molte donne, anche famose, vedono in lei un modello perché ha sopportato il dolore, ma forse ha fatto di più: ha dominato il dolore, trasformandolo in qualcosa d’altro. È una donna forte, Frida? Non so, io non amo la definizione di “donna forte”, mi sembra una scorciatoia per non vedere le umane fragilità.

Nel libro – che è saggio, ma anche guida alla scoperta dell’arte da una prospettiva inconsueta, e romanzo – c’è spazio anche per il racconto di alcune donne “comuni”: ne facciamo la conoscenza solo attraverso il nome. Chi sono?
Rebecca, Anna, Adelina, Corinna e tutte le altre protagoniste dei racconti che si alternano a piccoli saggi sono donne di fantasia che, in modi diversi l’una dall’altra, fanno i conti con il proprio corpo. Con Corinna ho provato a mettermi nei panni di una donna che vende il proprio corpo, con Anna ho immaginato una persona che prova il desiderio di scomparire, con Irene ho giocato le carte del racconto fantasy. Ogni donna coltiva il proprio corpo formulando un linguaggio diverso e penso che l’arte possa aiutarci a cogliere sfumature che altrimenti resterebbero non viste.

Livia Montagnoli

Roberta Scorranese ‒ A questo serve il corpo. Viaggio nell’arte attraverso i corpi delle donne
Bompiani, Milano 2023
Pagg. 192, € 19
ISBN 9788830105713
www.bompiani.it

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