Nicolas Ballario è una delle figure più poliedriche del mondo dell’arte in Italia. Divulgatore televisivo con The Square su SkyArte, voce nota su Rai Radio 1 con Te la do io l’arte, produttore e curatore di grandi mostre, a lungo braccio destro di Oliviero Toscani, art director, podcaster, giornalista, imprenditore, manager culturale e perfino attivista politico. Alla vigilia dei suoi 40 anni, e dei suoi 20 di carriera, si è raccontato in questa intervista inconsueta svelando retroscena, aneddoti, alti e bassi della sua vita e della sua professione. Inconsueta perché il confronto a suon di domande e risposte si è svolto durante una lecture con gli studenti del Laboratorio di Editoria dell’Arte all’Università Iulm di Milano.
Partiamo dall’inizio, inizio, inizio…
L’inizio, inizio, inizio è il 1984, a febbraio, l’anno in cui sono nato a Saluzzo, in Piemonte.
Ah, quindi siamo prossimi ai 40!
Eh già, ecco perché siamo qui.
Quando e come è cominciato il tuo percorso?
Nasce tutto col mio trasferimento a Roma, subito dopo il liceo. Era il 2004.
Nicolas Ballario, dal Piemonte a Roma per seguire la politica
Perché un ragazzo ventenne piemontese si trasferisce a Roma e non a Torino o a Milano?
Semplice: perché a Roma c’era la politica e io all’epoca ne ero ossessionato. Militavo già da ragazzino nel Partito Radicale e volevo spostarmi a Roma per raggiungere Marco Pannella e i suoi. La scusa è stata l’iscrizione ad un’accademia di fotografia dando seguito all’altra mia passione.
La frequentazione dell’accademia è stata soddisfacente?
Per nulla! Ma alla fine non mi interessava granché, volevo solo stare a Roma e frequentare il partito. Infatti mi presento subito a Radio Radicale che all’epoca era diretta dal mitico Massimo Bordin che poi diventerà il mio grande maestro nel mondo della radio. Qui immediatamente mi indirizzano verso un gruppetto di ragazzi che conducevano una trasmissione giovanile.
In effetti eri molto giovane…
Sì, ma la cosa benché fosse una grande palestra non mi bastava. E allora me ne invento una delle mie.
Cosa succede?
Succede che avevo una fissazione per Oliviero Toscani, che in quegli anni era una potenza. Mi viene in mente che anche lui era iscritto al Partito Radicale e allora riesco a conoscerlo. Parlando con Toscani nasce lo spunto di ideare una trasmissione radiofonica. Vado subito da Bordin e, mentendo, gli comunico che Oliviero vorrebbe collaborare alla radio a condizione però di co-condurre un programma con me.
Lo hai imbrogliato…
Sì, lo ho imbrogliato. Ma a fin di bene. E poi Bordin mi dava tanta fiducia. Quella trasmissione è stata un bene per la radio ed ha anche rappresentato la svolta per me.
Perché?
Perché dopo neanche un mese Toscani, visto il mazzo che mi facevo, mi nota e mi propone di andare a lavorare nella sua factory creativa della Sterpaia in provincia di Pisa.
Ok, ma nel frattempo come ti mantenevi a Roma?
Un disastro! Guadagnavo poco: lavoravo in un call center per pagarmi l’accademia e ogni finesettimana facevo il cameriere in un pub. La mia famiglia proprio non poteva darmi un supporto. Finiti gli studi ho iniziato a fare il commesso in un negozio di fotografia dove riuscivo a mettere insieme 700 euro al mese, peccato che la metà se ne andassero per l’affitto di una stanzetta in zona San Giovanni.
Gli anni con Oliviero Toscani
Quindi hai accettato subito l’offerta di Toscani?
Sì. Ma non certo per motivi economici visto che mi pagava quanto il negozio di fotografia! Ma ad un certo punto gli ho chiesto un aumento…
E cosa ti ha risposto?
Testuale: “Hai ragione, c’è qualcosa che non va nel tuo stipendio, dovresti essere tu a pagare per lavorare con me”. Amen.
Al di là dell’aspetto economico, com’è stata l’esperienza alla Sterpaia?
Sono stati tre anni in cui ho fatto le cose più disparate, ma lo considero proprio il mio periodo seminale. Quello in cui ho appreso di più e ho costruito il mio network di relazioni. Come agenzia di comunicazione avevamo dei clienti straordinari.
Ad esempio?
L’esempio più clamoroso è stato l’Inter.
La squadra di calcio?
Sì. Era la grande Inter di Massimo Moratti, un miliardario con un coraggio da pirata. Sono passati 15 anni ma ancora mi ricordo che confezionammo un giornale dedicato alle dipendenze da distribuire gratuitamente a San Siro. Erano gli stessi anni in cui Toscani sensibilizzava con la famosa campagna sull’anoressia.
Un’altra bella palestra significativa dopo quella di Radio Radicale…
Sì, da Toscani ho imparato tutto. Tra l’altro all’epoca era anche direttore del canale tv Music Box su Sky. Lì ho capito cosa significa districarsi tra la verticalità e l’orizzontalità dell’approccio professionale.
Nicolas Ballario tra arte e comunicazione
Ma quando incontri l’arte nel tuo percorso?
Effettivamente alla fine dell’esperienza da Toscani ero di fronte ad un bivio. O continuare ad occuparmi di comunicazione o seguire la passione per l’arte contemporanea e la fotografia. A questo punto mi licenzio.
Non deve essere stata una scelta facile…
Effettivamente no, ma subito dopo inizia un’altra collaborazione molto rilevante che durerà sette anni dal 2010 al 2017. Sto parlando del mio lavoro da Arthemisia, una delle più importanti società di produzione di mostre in Italia. Lì, a fianco di Iole Siena, sono stato il responsabile per la sezione dell’arte contemporanea ed eventi speciali.
In quell’intervallo ti sei concentrato solo sulle mostre e su Arthemisia?
No, mi occupavo anche di altro. Innanzitutto continuavo con la radio. Con Radio Radicale la collaborazione è andata avanti fino al 2020 anche se il mio attivismo si è molto affievolito dopo la morte di Marco Pannella nel 2016. Invece dal 2013 ho iniziato con Radio Rai, dove sono ancora, misurandomi con un contesto molto più strutturato rispetto all’atmosfera corsara di Radio Radicale. E poi c’è stata la tv: tante piccole esperienze fino al 2020, quando mi chiama SkyArte e iniziamo a progettare The Square, il mio programma oggi giunto alla quarta stagione. E poi ho registrato una serie di podcast tra cui Capire l’Arte Contemporanea assieme ad Angela Vettese.
Podcast, tv, radio. Quale mezzo prediligi per interpretare il tuo ruolo di divulgatore?
Assolutamente la radio. La radio è il mio grande amore. Gli altri sono tutti canali interessantissimi, ma la radio è la radio. La tv la fa una squadra numerosissima e a scrivere sono gli autori. Io in minima parte. La radio invece la faccio praticamente da solo, col regista. In generale ho poi l’impressione che in radio gli ospiti, senza tutta quella gente, siano più rilassati. E poi è anche una questione di ego…
In che senso di ego?
Nel senso che in radio sei come in un acquario. C’è un vetro che ti separa dagli altri, tu sei da solo, ma in realtà tutti osservano ciò che fai. Risultato? Ti concentri maggiormente sul contenuto. Ecco perché trasmettere in diretta dà un’adrenalina particolare a te e all’ospite il quale si ritrova incalzato in un contesto in cui è più facile aprirsi. Fare la radio in diretta è la goduria massima ma si tratta di un’attività straordinariamente preparata, scritta e studiata. Hai in media 300mila persone che ti ascoltano ad ogni puntata. Potrebbe sembrare improvvisazione, ma non c’è nulla di più fuorviante.
Politica, radio, giornalismo, comunicazione, fotografia, mostre, editoria, tv, podcast, performance live. Non ti è mai venuta voglia di capitalizzare questo know how in un’attività imprenditoriale solo tua?
Proprio per la mia convinzione di essere più orizzontale possibile ho sempre pensato che fosse meglio fare il manager che l’imprenditore. Il mio è un “approccio predatorio”: lavorare con i migliori editori come appunto Sky, la Rai o il settimanale L’Espresso dove ho una rubrica. Tuttavia negli ultimi anni, dopo il licenziamento da Arthemisia, un tentativo imprenditoriale l’ho azzardato con Iole Siena.
Cosa vi siete inventati?
Una piccola società di produzione di mostre che si chiama Piuma.
Che tipo di mostre?
Con Piuma mi sono dato una regola: realizzare contenuti sui quali non ho voce in capitolo perché non ne so nulla. Questo mi permette di approcciarli come produttore puro e non nel mio ruolo di divulgatore culturale. Ad esempio abbiamo realizzato mostre per bambini, come quella sui Lego e un’esposizione su Zerocalcare. L’ho chiamata “piuma” proprio per questo senso di leggerezza che contrasta per certi versi con la ‘pesantezza’ di anni e anni di esperienza. È un’attività che mi sta dando anche soddisfazioni a livello economico: sono produzioni semplici in un contesto che ormai conosco benissimo.
Ballario: l’organizzazione del lavoro, i social, gli influencer. E il futuro
Come organizzi il tuo lavoro? Fai tutto da solo o c’è qualcuno che ti aiuta?
Per lo più faccio da solo. Mi considero a volte un uomo-azienda e dovrei fare meglio in questo senso. Ad esempio aprire un sito personale, ma mi è sempre sembrata una cosa da pirla. Per me è già imbarazzante avere un agente che mi dà una mano per i contratti, per le conferenze e per le ospitate in tv. Anche sui social dovrei essere più attivo, specie sulla mia pagina Instagram che è un canale in più per trovare nuovi lavori e collaborazioni.
A proposito di social, quale è la tua opinione sugli influencer che si occupano d’arte?
Io non lo farei mai. Se c’è una cosa che ho imparato è che anche per fare il cazzone devi essere serissimo. Il problema nel mondo degli influencer è che vogliono parlare d’arte allargando eccessivamente il pubblico, cercando di arrivare a chi non è realmente interessato all’argomento. A me interessa un pubblico che sia già un minimo sensibile alla materia: il pubblico del teatro, del cinema, della musica contemporanea.
Spiega meglio.
Gli influencer pensano di poter parlare d’arte allo stadio, come se il pubblico dell’arte contemporanea fosse composto di tanta gente. In realtà il pubblico dell’arte contemporanea non esiste, spesso coincide con gli addetti ai lavori. Certamente non ci si deve accontentare di parlare a pochi, ma neppure banalizzare. Se osserviamo il mercato, nessun creator d’arte in Italia ha avuto particolare successo in termini numerici e di impatto.
Insomma, sei snob!
Per niente. Sono così anti-snob che rispetto benissimo chi pensa che l’arte contemporanea sia una merda.
Detto tutto ciò, cosa vuoi fare da grande?
Vorrei dipendere sempre meno da qualcuno. Sento crescere la voglia di creare delle imprese mie, non necessariamente editoriali. Ne vorrei far nascere tante piccole invece di una grande, così posso differenziare. Se hai clienti diversi sei più libero: puoi tranquillamente mandarne uno al diavolo e continuare con gli altri. Comunque da grande vorrei lavorare il meno possibile.
Vogliamo salutarci con un consiglio che lasci a noi studenti?
Non fidatevi delle generazioni più mature che vogliono insegnarvi le dinamiche del lavoro: quando avranno finito, questo mondo sarà già cambiato. Tenete a mente che le opportunità nell’arte sono poche, per cui occorre essere più orizzontali possibile e pensarsi come aziende. Insomma, non fossilizzatevi.
a cura di Laura Buratti, Lisa Chiodi, Arianna Diazzi, Valentina Dolcini, Eleonora Galli, Giorgia Modolo, Riccardo Ress, Francesco Sghirripa, Beatrice Tosi
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