Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 1901 – Coira, 1966), lasciandosi il cubismo alle spalle, si esprime inventando una scultura ridotta all’osso. Consapevole della crisi del soggetto, modella esseri scarnificati, sottili, sofferenti. Sembra di poterli sfiorare ma sono irraggiungibili. Carenze che diventano essenze, si muovono e insieme indietreggiano, inibiti da blocchi ostili. In equilibrio tra l’essere e il nulla.
Homme qui marche, il bronzo del 1960, una delle sculture più celebri di Giacometti, gli permette di esprimere la sua visione del mondo. E dei suoi simili. Dove tende a ridurre al minimo la materia di cui sono fatti i corpi, i volti specialmente. Diventano affilati come una lama, per dare il meno appiglio possibile alla fine della vita che ci accompagna ovunque.
L’arte di Alberto Giacometti
A vent’anni gli muore accanto, durante un viaggio in treno, l’uomo che ha casualmente conosciuto. Non è la morte a sconvolgerlo ma la solitudine di quell’essere. Percepisce che non è solo il corpo a diventare inerte, ma lo stesso io, inutile involucro della materia. La scomparsa del compagno di viaggio gli rivela il nulla. La persona che si ama o si guarda è solo effimera apparenza, una materia priva di senso che ci rapporta al prossimo, da un lato come un assoluto, e dall’altro come il niente. Di qualcuno, possiamo cogliere l’idea dello sguardo e non la presenza. Si spiegherebbe nelle sue sculture la riduzione del volto ad una lama, come accennato prima, per allontanare la caducità della materia, simbolo dell’ineluttabile. Il suo Uomo che cammina è il prototipo, gracile filiforme disincarnato, di chi ha avuto esperienza dell’inferno e si è ridotto solo pelle e ossa.
Le lettere di Alberto Giacometti
Ma c’è un altro Giacometti che per tutta la vita scrive lettere a mano, di getto, nei momenti di riposo o davanti ad un caffè, ora pubblicate ne Il tempo passa troppo presto, il testo curato da Casimiro Di Crescenzo delle ticinesi Edizioni Casagrande. Lettere, selezionate da un ampio corpus di quasi 1.550 epistole spedite tra il 1916 e il 1964 alla famiglia abitante in val Bregaglia nella Svizzera italiana, che formano una sorta di glossario. Una frammentaria autobiografia, arricchita con schizzi accennati, che registra entusiasmi e sconfitte. Si scopre la gratitudine dell’artista verso chi l’ha preceduto nella storia dell’arte. Che dimostra visitando i musei vaticani, il Louvre, il parigino Musée de l’Homme, ma anche confrontandosi con la componente religiosa che ispira Giotto, con la grandiosità di Tintoretto. E ancora con i feticci africani, la statuaria greca, le sculture egizie che possiedono una grandezza, un ritmo della linea e della forma, una perfetta tecnica.
L’opera è un racconto in presa diretta di un Giacometti inquieto mentre lavora nel suo atelier parigino di rue Maindron. In preda al dubbio, alla riflessione. Nella sua estetica l’opera non è mai conclusa, ma una traversata che non giunge mai in porto. È un continuo cominciare, interrompere, demolire, riprendere. Ciò che gli interessa è la realtà. E potrebbe passare tutta la vita a copiare una sedia, come dichiara poco prima di morire.
Un racconto che investe le sue amicizie: con André Masson, André Derain, Samuel Beckett, Jean Paul Sartre con i quali ha in comune l’invecchiamento rapidissimo del tempo, come direbbe Antonio Tabucchi.
Fausto Politino
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