Ripensare il mondo dopo il capitalismo, tra terra e comunità: ecco perché dovete giocare a Wanderhome
Vincitore a Lucca del premio per il miglior Gioco di Ruolo, Wanderhome è un gioiello di narrazione poetico e rivoluzionario. Ne abbiamo parlato chi l'ha scritto e con il team che l'ha portato in Italia
Che il mondo dei Giochi di Ruolo – quelli in cui i giocatori assumono il ruolo di un personaggio e, tramite la conversazione, immaginano spazi e avventure – sia andato oltre Dungeons & Dragons è una nozione che piano piano inizia a farsi largo anche nei circoli meno di nicchia. Che esista un premio apposito per i GdR a Lucca Comics & Games, lo è sicuramente di meno, ma è un’utile cartina al tornasole per capire come si stia evolvendo il mondo dei giochi che mettono al centro l’immaginazione. E che vette stia raggiungendo: il gioco vincitore dell’ultima edizione della gara è un piccolo capolavoro. Edito in Italia da Grumpy Bear e ideato negli Stati Uniti da Jay Dragon per Possum Creek, Wanderhome è un gioco fantasy bucolico “senza trama” (cioè a differenza dei GdR normali, senza scenari predefiniti), aperto a molteplici usi di gioco, introspettivo e poetico, ma senza ingenuità. Qui, tra i santuari coperti di muschio e le greggi di bombi, vivono le “persone animaline”, animali con comportamenti antropomorfi – e caratteristiche personali organizzate in categorie, o libretti, che i giocatori possono scegliere e personalizzare –, che vivono delle avventure alla scoperta di un mondo meraviglioso, ricchissimo di suggestioni e stupendamente illustrato nel manuale di gioco. Abbiamo parlato con la mente dietro il gioco, Dragon, con la traduttrice e con l’editor di Grumpy Bear, Laura Fontanella e Marta Palvarini.
L’intervista a Jay Dragon di Wanderhome
Hai creato un gioco complesso, gioioso, vivissimo. In cui spicca il tema della guarigione.
Molti giochi e storie più “soft” che leggo riguardano mondi pacifici dove non succede mai nulla di brutto: li trovo nella migliore delle ipotesi giovanili e nella peggiore condiscendenti. Wanderhome è molto esplicitamente un mondo del dopoguerra, che ha visto traumi e disastri orribili, e ora sta cercando di mettere insieme le cose.
I personaggi sono tutti viaggiatori in cerca di casa.
Un concetto che viene reso in modo suggestivo attraverso il libro, ma c’è un altro modo di pensarli, che è attraverso la lente dei senzatetto e degli sfollati. Ai giorni nostri ci sono molte storie sul collasso del capitalismo e sulle società post-capitaliste, ma trovo che il periodo che mi interessa di più sia quello in cui il vecchio mondo è per lo più morto, e il nuovo mondo è nato, ma i mostri non se ne sono ancora andati del tutto. È un momento in cui molte persone hanno bisogno di formare nuove connessioni.
Cosa ti ha spinto a superare la struttura occidentale della narrazione in tre atti? Quanto dei film di Miyakazi e delle strisce di Mumin vediamo in questo mondo?
Uno degli obiettivi più grandi per Wanderhome era quello di realizzare un gioco in cui il luogo (Haeth) sembrasse esso stesso un personaggio, che il processo di creazione del mondo fosse approfondito almeno quanto quello del personaggio e in cui i due siedono fianco a fianco. Esplorare un luogo e farlo con compassione significa uscire dalla mentalità “degli eroi e dei cattivi” e dal dramma esplosivo che si trova in molte storie. Una delle maggiori ispirazioni è l’arte di Pieter Bruegel il Vecchio, che era molto interessato alla democratizzazione del paesaggio al punto da dipingere la Processione al Calvario e nascondere Gesù in un angolo del paesaggio. L’attenzione su “individui singolari” e l’esaltazione degli eroi fa parte del veleno da cui il mondo di Wanderhome sta guarendo. Le opere dell’anarchica Tove Jannson e alcuni dei film più esplorativi di Miyazaki sono stati vitali, poi, per immaginare mondi fantastici al di fuori della cornice occidentale con eroi e violenza. C’è dolore in questo mondo, ma non è di questo che parla la storia.
Quanto il gioco è stato ispirato dalla società americana e dalla sua pesante eredità? E quanto deriva dalla tua esperienza personale?
È impossibile scrivere della terra e delle persone che la abitano negli Stati Uniti senza soffermarsi sull’eredità del colonialismo d’insediamento. Parte del mio desiderio con Wanderhome è quello di soffermarmi su relazioni alternative con la terra, in una sorta di deriva situazionista moderna. C’è stato un periodo in cui ero senzatetto: è una sensazione strana, fare couchsurf e dormire in macchina stando su una terra a cui non ho diritto, sia nel senso della mancata proprietà immobiliare sia per il furto dei coloni. È difficile parlare di questi temi senza cadere nella retorica fascista “del sangue e della terra”, quindi se stiamo cercando di rifiutare sia il nostalgico ritorno alla tradizione sia lo scenario capitalista, cosa resta? Wanderhome sono io che cerco di pensare a cosa verrà dopo.
Pensi che i giochi possano cambiare radicalmente la società in meglio? Consideri il tuo gioco politico?
È quasi tautologico, una volta accettato che i giochi sono arte, che i giochi siano politici. Io sono una creatura politica: in quanto persona grassa, disabile e queer, il mio corpo è un campo di battaglia. Tutto è politico, quindi, ovviamente, il mio gioco è politico, eppure… penso che a volte le persone cadano nella direzione opposta. I giochi sono prodotti che le persone acquistano. Negli Stati Uniti, e non solo, i giochi e la ludicizzazione sono un terreno fertile per l’alt-right (l’estrema destra extra-parlamentare, ndr) e l’egemonia aziendale: se è possibile che i giochi contribuiscano a rendere il mondo un posto migliore, è altrettanto possibile che lo rendano un posto peggiore. Spero che le persone giochino ai miei giochi, facciano amicizia tra loro e pensino al loro mondo in un modo migliore, e usino quell’energia per fare davvero la differenza, organizzandosi, protestando e agendo contro l’oppressione.
Il tuo gioco ha ottenuto un grande riconoscimento in Italia: ti aspettavi un tale successo?
È un grande onore vedere riconosciuto il mio lavoro! Non è che Wanderhome non abbia avuto successo nell’anglosfera, dopotutto la mia carriera si basa sulla sua popolarità, ma in qualche modo viene liquidato tra i “giochi per ragazze”, o “casual”, al secondo posto rispetto a giochi più “seri” e “maschili”. Questo riconoscimento è assolutamente anche merito del lavoro di Grumpy Bear: l’edizione italiana di Wanderhome è stupenda e la cura e l’apprezzamento che mi hanno dimostrato sono stati impeccabili. In particolare, mi riempie di orgoglio la loro decisione di creare una fanzine e dei materiali specifici per l’Italia, poiché una parte importante della costruzione del mondo di gioco era la mia cultura e qualsiasi traduzione deve portare quella specificità.
L’intervista a Marta Palvarini e Laura Fontanella
Quello che vediamo in Wanderhome è un mondo ideale?
MP: Il presupposto di questo mondo è che abbia visto la violenza, la guerra, la rivoluzione. Molti temi non sono affatto idealizzati: ci sono i veterani sopravvissuti alla guerra – un tema estremamente statunitense –, ci sono gli apolidi, e poi c’è il problema rappresentato dagli eroi. Quella che Jay fa è una critica al viaggio dell’eroe, ma anche alla narrazione in tre atti occidentale che prevede un’introduzione, un conflitto e una conclusione: Wanderhome si struttura intorno alla narrazione orientale, la kishōtenketsu giapponese in quattro atti, senza conflitto. È stato difficile da trasporre, ma il punto di vista giapponese è più vicino al Mediterraneo, che all’America. Basta vedere l’Odissea.
Affrontando le difficoltà, e risolvendole insieme al gruppo di giocatori, si potrebbe vedere (e fraintendere) il gioco come psicoterapia?
LF: Per certi versi molte delle persone che ruotano attorno ai GdR sono alla ricerca di strumenti per “fare altro” rispetto al giocare, come la terapia di gruppo o l’educazione in senso didattico-pedagogico. Ma non può essere così: spesso ci sono situazioni molto delicate che richiedono un intervento professionale, non si può lasciare al “fai da te”. Sconsiglio caldamente di utilizzare i giochi per fare qualunque cosa che non sia giocare insieme, che è già un atto politico e rivoluzionario. Il bello del gioco è che ci permette di sottrarci dal burnout delle nostre vite lavorative e da dinamiche produttiviste del capitalismo, ed è di per sé curativo.
Wanderhome è uno strumento di ripensamento sociale? È una cosa comune nei giochi?
LF: Ci sono sempre più giochi che agevolano un pensiero divergente, un’immaginazione altra delle cose. Per esempio ora sto traducendo gioco di natura micotica, e si vede un interessante sviluppo di meccaniche e narrazioni diverse.
MP: Anche Dungeons & Dragons è un gioco fortemente politico, visto che le sue meccaniche per salire di livello sono influenzate dal capitalismo e dal colonialismo. Negli anni Settanta questo era fatto in modo inconscio, e i creatori mediavano i propri strumenti dai wargame (i giochi di strategia militare, ndr). Wanderhome contesta questo modello, come anche Cyberpunk 2020 o Hunter.
La disabilità ha un ruolo molto importante nel gioco, ma non nell’ottica dannosa e stantia dell’inclusione.
MP: La geografia di differenze è molto chiara in Wonderhome, e senza parlare mai di “inclusione”. Il libretto del danzante è completamente ADHD, per esempio. C’è tutto uno spettro di alterità nel rapporto con gli altri personaggi: non ci sono fratture, e l’alterità è qualcosa con cui imparare a rapportarsi.
Il gioco non è necessariamente gestito da un master, cioè una persona che conduce la seduta di gioco preparando il canovaccio della storia, ma incita la cooperazione. Una bella novità.
LF: Sicuramente avere figure altre rispetto al game master stereotipico fa solo bene: è la dimostrazione che, anche nella vita, non abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare. Un problema, peraltro, squisitamente italiano: in politica abbiamo la figura dell’uomo forte, un concetto che dà comfort ma che priva di autodeterminazione e di consenso diretto. È un brutto vizio anche nelle dinamiche interpersonali, i femminicidi parlano chiaro. Con l’assenza del master le cose possono funzionare bene, se non meglio.
MP: Certo, poi ci sono delle difficoltà nella narrazione collettiva, come il rischio di partire per la tangente. Non bisogna ignorare l’unica vera meccanica di gioco, che sono i token, visto che la loro perdita e acquisizione determina cosa si può fare.
A Lucca avete riportato una grande vittoria.
LF: Sì, il gioco è piaciuto alla giuria, e sono contenta che questo premi la casa editrice e il lavoro di tutti e tutte. D’altra parte ci sono sicuramente dei rischi: questo è un gioco queer che parla di tematiche di neurodivergenza, disabilità, migrazione. Insomma, è un gioco che può essere sussunto per dimostrarsi aperti e inclusivi anche quando non lo si è: vediamo dappertutto prodotti editoriali che hanno mangiato la foglia e guardano al portafoglio delle soggettività marginalizzate. A Lucca il nostro team ha detto sul palco “Stop bombing Gaza”, e che questo gioco è per persone queer e oppresse, ma quanti giornali hanno riportato la cosa?
MP: Anche perché il gioco parla letteralmente del genocidio che sta avvenendo a Gaza.
Giulia Giaume
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