La maternità in poesia. Intervista ad Alessandra Racca
La nostra ricognizione sulla poesia contemporanea prosegue. In questo appuntamento parliamo con Alessandra Racca della sua nuova raccolta: leggera, ironica e apparentemente innocua, che tuttavia nasconde spesso sottotesti anche molto dolorosi
Il 3 maggio 2024 è uscito per Interno Poesia un libro gentile e prezioso. Alessandra Racca (Torino, 1979), dopo diverse raccolte di poesie – tra cui Poesie Antirughe (Neo. Edizioni, 2011), L’amore non si cura con la citrosodina (Neo. Edizioni, 2013), Consigli di volo per bipedi pesanti (Neo. Edizioni, 2016) e Nostra signora dei calzini, deluxe (Neo. Edizioni, 2018), più numerosi progetti incluso un workshop in collaborazione con la Scuola Holden – ci regala una creatura nuova. Di pancia (e altri organi vitali) è uno spioncino sul suo mondo, messo in versi, e sul suo punto di vista sulla maternità e altri temi gentili, preziosi, ed eternamente urgenti. Ecco cosa ha avuto da dirci in proposito.
Intervista alla poetessa Alessandra Racca
Ciao Alessandra, Di pancia (e altri organi vitali) segna il tuo passaggio a Interno Poesia. Ci racconti come è nata (che è quasi un gioco di parole in questo caso) la raccolta e come sei arrivata alla casa editrice?
Mi piaceva la proposta di Interno Poesia, così quando ho avuto modo di conoscere di persona Andrea Cati, ospite di un mio laboratorio di poesia, gli ho parlato di questi scritti e di che forma avevano preso. E così queste poesie hanno trovato un editore.
Quando hai iniziato a scrivere di maternità? Ritieni che ti riesca più o meno semplice rispetto ad altri argomenti?
Se guardo a ciò che ho scritto e anche pubblicato prima di questa raccolta, il tema è tutt’altro che assente. Come credo emerga dal libro, è stato per me un tema forte, di grande desiderio e al contempo di grande paura e dunque c’è sempre stata traccia di tutto questo in ciò che scrivevo. D’altra parte c’è traccia di tutto ciò che ha attraversato la mia vita in ogni cosa che ho scritto anche in passato.
Però non mi sono certo messa a scrivere pensando di fare “un libro sulla maternità”. Ho scritto delle poesie perché questo è il mio modo di avere a che fare con le cose incandescenti o stupefacenti, che alla fine è uguale. Ci sono tanti moventi alla scrittura anche nella stessa persona, tante direzioni che coesistono. Anche in questo libro e su questo argomento ci sono state.
Sempre riguardo alla maternità: quali sono le tue autrici di riferimento? Esiste, secondo te, anche qualche uomo che abbia parlato del tema in modo adeguato?
La letteratura e la poesia sono piene di genitori e figli, perché è un grande tema della vita. Io non so mai rispondere alla domanda “autori di riferimento” perché il mio modo di avere a che fare con la scrittura degli altri non è questo, non che non abbia delle preferenze ma non funziono “a canone”, la mia biblioteca mentale è un guazzabuglio. Però se penso a libri sulla maternità, il primo che mi viene in mente è Le parole fra noi leggere di Lalla Romano, una sorta di diario minuzioso e ossessivo del rapporto della scrittrice con il proprio figlio. Disturbante e bellissimo. Se penso alla poesia mi viene in mente Sari – poesie per la figlia, una silloge di ormai parecchi anni fa di Laura Liberale e più recentemente ho letto con piacere Sale grosso di Maria Moresco dove ci sono poesie minute e precise che restituiscono aspetti di questa esperienza, anche nel rapporto con la scrittura. Per dirti poi di autori uomini che scrivono di paternità, mi viene in mente il recente Sonetti bianchi di Gabriel Del Sarto, che ruota proprio attorno al tema della nascita, una poesia di J. Rodolfo Wilcock che si intitola A mio figlio, che mi piace molto. Ma ammetto che ci ho davvero pensato meno, sicuramente con minore urgenza e mi viene in mente molto meno.
Se penso alla tua poesia, mi viene in mente qualcosa di “leggero”, ironico e apparentemente innocuo, che tuttavia nasconde spesso sottotesti anche molto dolorosi. È un modo di comunicare che riservi esclusivamente ai tuoi versi o sei così anche nella vita?
L’ironia è una mia grande amica, nella vita come nella scrittura. Forse è anche un lessico famigliare. Sono grata a chiunque riesca a sollevare il peso che come esseri umani ci tocca di sopportare. Io, dentro di me, spesso, sono pesante, ma aderire a questo peso mi annoia, mi fa sentire ridicola. L’ironia, l’umorismo, il ribaltamento sono leve, sollevano e mostrano molto spesso cose più interessanti. Ti fanno spostare lo sguardo e allora magari lì dove non guardavi c’è qualcosa su cui vale la pena indagare. La parola, poi, è un incredibile grimaldello, se ci giochi, con le parole, ecco che ti fanno scoprire associazioni, rovesciamenti, inquietudini. E si fa tutto più interessante.
Da tanti anni ti occupi anche di cura e conduzione di eventi culturali e di poesia performativa, in particolare su Torino. Cosa sei diventata prima, poeta su carta o su palco?
Non so. Penso che la scrittura sia stata la mia casa davvero molto presto, però il fascino di “dirla” è altrettanto antico. D’altra parte non sono un’improvvisatrice, ciò che dico, prima, è scritto. Quindi secondo me quella della scrittura è la mia prima officina. Però, anni fa, quando ho avuto per le mani delle poesie che con consapevolezza volevo rischiare di proporre al mondo ho pensato prima “faccio un reading” e poi “provo a pubblicarle”. E via via ho capito che quella della lettura ad alta voce è una via che amo molto. Quindi non so. Cosa sono: carta o palco? Forbice, direi.
Maria Oppo
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