Prima di interessarci ai risultati che possiamo conseguire con le innumerevoli attività che svolgiamo, ben prima di preoccuparci dei loro eventuali frutti, dovremmo prestare maggiore attenzione proprio ai modi in cui possiamo riuscire a ottenerli. A contare non è solo cosa fare, ma anche come farlo.
È questo uno dei più significativi insegnamenti che possiamo trarre dagli scritti di John Cage. Lo è anzitutto in ragione della possibilità di ripensare il ruolo della variabilità nelle creazioni artistiche, che rivela quanto ci siano vicine anche quando sembrano qualcosa di non immediatamente decifrabile. Si tratti di 4’33”, di performance, della esposizione di oggetti di uso quotidiano, delle pratiche relazionali e partecipative, di interventi temporanei o permanenti negli ambienti naturali: il tema che condividono è sempre lo stesso, prima del risultato è il modo di conseguirlo a essere un prezioso oggetto di indagine.
Ragionare sui processi permette di comprendere meglio le arti e il loro divenire. Farlo vuol dire esaminare non solo le opere ma anche gli accadimenti nonché quello che fa chi le crea, le artiste e gli artisti. Anacronistico, si dirà. Soprattutto, considerando gli odierni dibattiti sull’antropocentrismo e sulla intelligenza artificiale. Tutt’altro, perché Cage sapeva guardare lontano. Formulava le sue osservazioni scrutando con attenzione quanto gli stava accadendo intorno, difendendo una idea in particolare: ciò che solitamente chiamiamo ‘arte’ non è qualcosa di tanto esotico rispetto a ciò che ha il nome di ‘vita’.
John Cage: un elogio del cambiamento
Eravamo rimasti a Silenzio. Ossia, non solo allo spazio di possibilità che può trovare il suono per via della sua propagazione ma anche a quello che prendeva forma attraverso le riflessioni che, con immancabile finezza, Cage aveva formulato nell’omonima raccolta di saggi, conferenze e articoli scritti tra il 1937 e il 1961. In quelle pagine veniva affrontata l’esigenza di rinnovare l’ascolto conformemente a quei mutamenti creativi che sono stati cruciali per le trasformazioni artistiche della prima metà del Novecento. Per esempio, tra le conseguenze dell’uso dei nastri nella nuova musica vi era la diffusione della notazione spaziale, alternativa a quella simbolica: il suono veniva trascritto in termini di accadimento e non solo di emissione fisica. Dopo alcuni anni (Un anno, a partire da lunedì veniva pubblicato la prima volta nel 1967) Cage andava ancora più in profondità rifinendo quel suo elogio del cambiamento: è necessario rinnovare le pratiche, i modi di guardare e ascoltare, le teorie e le possibilità descrittive; è così che continuiamo ad andare avanti, nella vita e nelle arti. Così, il perimetro di quegli spazi viene ampliato rendendo ancora più importante quel riferimento tanto prezioso per le sue riflessioni, il tempo. Pur non essendo il suo unico soggetto, ed essendo naturalmente già presente fin dagli scritti raccolti in Silenzio, esso primeggia con frequenza nelle pagine di Un anno, a partire da lunedì così come sarà la variabilità a risaltare in Parole vuote, la raccolta di scritti degli anni Settanta.
John Cage: le eventualità artistiche
Dire qualcosa del tempo è dire qualcosa della vita. Secondo Cage, infatti, osservazioni quesiti e dilemmi provenienti dalle arti, dal farle e dal farne esperienza, sono altrettanto familiari e quotidiani. A emergere dai saggi di Un anno, a partire da lunedì è infatti il profilo della idea di Cage secondo la quale le arti possano essere identificate con gli accadimenti. Quello che otterrebbero le artiste e gli artisti non sarebbero perciò altro che fatti che accadono con una certa ricorrenza nel corso del tempo. Ne scrive, per esempio, quando condividendo l’osservazione di Max Ernst – secondo il quale, diversamente dal passato, i cambiamenti nelle arti avvengono oggi ogni venti minuti – menziona gli insegnamenti dello storico dell’arte Ananda K. Coomaraswamy a proposito della trasformazione della natura nelle arti. Non è solo al tempo e neppure solo allo spazio, bensì al continuum, che Cage guarda per formulare le sue dissertazioni. Se il primo passo (con Silenzio) era stato quello di rendere manifesta l’identificazione tra composizione e processo, nelle pagine successive al 1961 tra i successivi vi è quello di rimettere in discussione le possibilità relazionali. Succede qualcosa, un accadimento potrebbe diventare arte. Ma, se da una parte Cage si esprime laconico con un frammento in cui scrive “lei passa il tempo contando le auto che transitano” (p. 24), dall’altra è cristallino nell’ammettere che “L’arte sta nel processo di arrivare a quel che è suo: la vita” (p. 6). È sulla base di queste osservazioni che gli scritti del libro rivelano quella sua idea attorno al fatto artistico, progettabile ma altrettanto accidentale. Ossia, in una parola ‘eventuale’.
John Cage: l’incauto rifarsi del pensiero
Quella idea ha tutte le sue ricadute sul piano pratico, sul fare arte. Per Cage, il modo più diretto per renderne conto è quello di rivedere i presupposti del comporre. “Gli chiesi che cos’è oggi una partitura musicale. Rispose che è una bella domanda. Dissi: È un rapporto fisso tra le parti? Disse: Certo che no, sarebbe un insulto”. (p. 25). Semmai, essa sarebbe un sistema che registra mutevolezze e possibilità, una struttura aperta poiché sintonizzabile con quanto accade. Se così, cambia anche il ruolo di chi si adopera per ottenerla: “Un compositore scrive le parti, ma poiché non definisce le relazioni tra di esse, non scrive una partitura” (p. 29). Ora, perché a Cage interessa così tanto insistere su questo ruolo della mutevolezza?
Una risposta (non la sola) la offrono proprio le pagine di Un anno, a partire da lunedì, nella misura in cui esprimono quel passaggio dal discutere di spazio all’interrogarsi sul tempo e quella risposta riguarderebbe in ultima analisi le possibilità del pensiero. Vi è un senso in cui per Cage una riflessione sul pensiero, sul suo rinnovarsi costantemente, sia anche una riflessione sulla natura stessa del comporre. A essa sono dedicate più osservazioni che portano in primo piano un problema non da poco: non siamo troppo inclini a tenere conto del ruolo della variabilità nel momento in cui cerchiamo di stabilire che cosa siano gli oggetti del nostro dibattere. Quella sua idea sul pensiero è dunque rivelatrice del ruolo della mutevolezza, un accadimento nonché un nostro modo di essere: i diari raccolti nel libro – i primi due con toni speculativi, gli altri due in termini più applicativi – lo mostrano con chiarezza.
John Cage: silenzio e vuoti
Se su carta quel suo discorrere attorno al pensiero e al comporre prende spesso la forma del collage è anche perché Cage propone in quel modo di ragionare sullo spazio e di prendersi il dovuto tempo per farlo. Il testo della conferenza tenuta alla Juilliard School of Music ne è una prova: serve il giusto tempo per seguire il filo delle riflessioni, di parola in parola in tutto lo spazio bianco delle pagine nel quale quasi si perdono. Discontinuità e impegno nel fare le cose. Una questione di ritmo, ossia ancora una volta di tempo. Non a caso anch’essi, senza essere didascalici, sono soggetti affrontati in due conferenze nelle quali primeggia il tono morigerato e sagace delle dissertazioni di Cage: “Comunque chi è finito per primo in questa pozzanghera? E come ha fatto questo fango a diventare così seducente?” (p. 114).
Che si tratti di tempo, anche per discutere di spazi appare chiaro tenendo conto anche dei presupposti sui quali Cage ha modellato proprio il testo per la sua conferenza sul ritmo: in caso di esposizione orale, “gli spazi vuoti sono rappresentati da silenzi” (p. 118).
Anche per via dei modi in cui scrive – la loro forma grafica è imprescindibile per la loro riuscita – quelli di Cage non sono testi che offrono immediatamente i contenuti, semmai li esprimono a rilascio lento. Ora grazie ai ritagli che li compongono (così è, per esempio, nelle pagine di “Seriamente virgola”), ora componendo un testo fatto di segni e parole (si prenda come esempio la seconda dichiarazione sul compositore Charles Ives). Quello che sembra mero ornamento è invece un modo di dare forma a riflessioni più profonde: sulle possibilità e limiti della espressione, con le parole o con i suoni. Tra gli scritti, alcuni sono dedicati ad altri artisti: Marcel Duchamp, Jasper Johns, Joan Miró, Arnold Schönberg, Nam June Paik. Li accomuna quel modo che Cage ha di esercitare il pensiero mettendolo continuamente in relazione ad altri modi di impiegarlo. Non solo mostrando direzioni diverse del comporre o del fare arte, ma anche ampliando l’orizzonte delle esplorazioni. In fondo, come scrive, è una questione di ritmo: “Un minimo di elasticità mentale e si può vedere ovunque si guardi” (pp. 128-29). Il libro pubblicato da Shake Edizioni, tradotto Giancarlo Carlotti ed Ermanno ‘Gomma’ Guarnieri, il primo della nuova collana Classici della Nuova Musica a cura di Massimiliano Viel, è un ottimo invito per continuare a svolgere quell’esercizio.
Davide Dal Sasso
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati