Se fosse possibile rappresentare, con una sorta di grafico, il multicolore regno delle arti, si scoprirebbe che esse non esistono come corpi estranei e scissi gli uni dagli altri ma che – al contrario – sono promiscue e tendono a fondersi in forme ibride via via più particolari. E, se si riuscisse a guardare più da vicino e analizzare gli autori e le opere derivate da queste preziose commistioni, si noterebbe che, nell’intersezione tra l’arte della poesia (contemporanea) e quella del teatro, ci sta un poeta e attore di nome Filippo, e che in mano a questo poeta e attore si trova un libro, chiamato Le supernove non fanno rumore. E tu tossisci a teatro?, appena uscito per Baldini + Castoldi. Proprio di questo libro parlerà il nuovo capitolo della nostra rubrica, attraverso le parole del suo autore: Filippo Capobianco (Pavia, 1998) si laurea in Fisica presso l’Università degli Studi di Pavia nel 2020; dal 2021 si appassiona al mondo della poesia performativa, arrivando a vincere nel 2023 la 17esima edizione della World Cup of Poetry Slam, a Parigi. Si occupa di laboratori e formazione nelle scuole e gira l’Italia con il suo primo spettacolo Mia mamma fa il notaio, ma anche il risotto.
Intervista a Filippo Capobianco
Ciao Filippo. Tu sei stato eletto, nel 2023, campione mondiale di slam poetry alla Coupe du Monde a Parigi. Il tuo spettacolo di poesia, “Mia madre fa il notaio, ma anche il risotto”, dopo essere stato portato in palchi di tutta Italia, tra cui quello del teatro milanese Elfo Puccini e quello del Teatro India di Roma, ha recentemente vinto il Fringe Festival sempre a Milano. Qualche traguardo lo starò sicuramente dimenticando. Cosa ti ha spinto, nel punto più alto (finora) della tua carriera da performer e in tempi in cui statisticamente si legge sempre meno, a pubblicare un libro?
Molto sinceramente: mi è stato chiesto. Un anno fa, quando Baldini+Castoldi mi ha contattato, l’idea di scrivere un libro era parecchio lontana da me. Non perché non lo desiderassi, ma perché pensavo di non essere ancora pronto a confrontarmi con la pagina scritta. Ciò che é cambiato e che mi ha convinto a provarci è stato l’incontro con persone che hanno creduto nella mia scrittura e che, soprattutto, mi hanno dato carta bianca e tutto il tempo di cui avevo bisogno per sviluppare il progetto di libro che avevo in testa. Insomma, avevo tutto quello che un autore può desiderare: sostegno, libertà creativa, tempi morbidi e un’infinita scorta di cracker al rosmarino (per quelli, però, l’editore non c’entra niente). Era un’occasione ghiottissima, quindi mi sono buttato. In definitiva, del risultato sono molto contento e del percorso follemente grato.
Quando – prima che uscisse – mi hai parlato del progetto, hai subito specificato che non sarebbe stato una raccolta di poesie. Che definizione dobbiamo dare, dunque, a questo libro per soddisfare il nostro bisogno di attribuire una connotazione precisa alle cose?
La definizione più naturale che mi viene da dare di questo testo è “minestrone della nonna”, perché il tentativo è quello di far convivere in un solo libro poesia, drammaturgia, prosa, divulgazione scientifica, cipolle, carote, patate, un cucchiaino di curcuma e sale q.b. Parlandone con la casa editrice, abbiamo deciso che la cosa migliore fosse gettare questo progetto nel grande calderone del romanzo, sottolineando la sua natura narrativa e lasciando a chi leggerà la scoperta dei linguaggi ibridi che si incontrano man mano tra le pagine.
Esistono differenze tra la scrittura, intesa come atto creativo e (si suppone) ragionato, di un testo destinato all’esposizione orale di fronte a un pubblico e di uno invece concepito per essere stampato e dunque per restare come oggetto tangibile?
Ecco, questa è una delle cose che mi sembra di avere imparato. Per me decisamente sì. In generale, ho capito che per un artista comunicare attraverso qualsiasi mezzo presuppone la convivenza tra una radice creativa comune (che non varia da medium a medium) e la comprensione delle regole che lo specifico mezzo impone. Per capirci: non sento che per me scrivere un libro sia stato allontanarmi da ciò che era il mio progetto artistico sul palco – i princìpi, l’urgenza, il desiderio, il fine, quelli rimangono uguali – ma mi sono lanciato in un lavoro di traduzione per far sì che questo progetto trovasse una sua forma anche attraverso la pagina stampata. Un esempio chiaro è dato dalle poesie che sono contenute nel libro: la maggior parte dei testi era stato scritto per essere performato su un palco ed è stato adattato alla pagina con un lavoro di riscrittura abbastanza profondo. Mi sono spiegato? Spero di sì.
La poesia secondo Filippo Capobianco
La storia che fa da cornice narrativa al tuo testo vede come protagonista la Drammaturga-Demiurga, una Eugène Ionesco dotata di non meglio specificate capacità generatrici. Come è nato nella tua mente questo personaggio?
Una mattina del maggio 2023, apro gli occhi prima della sveglia con una frase in testa: “L’Universo comincia in un teatro”. Già dalle prime righe, mi viene istintivo immaginare la figura dell’autrice di questo testo/universo, colei che già prima dell’inizio dello spettacolo sa tutto ciò che accadrà, dal Big Bang alla morte termica del cosmo. L’idea mi sconfinfera, non la scarto, comincio a esplorarla e nei mesi successivi mi rendo conto che il punto di vista della Drammaturga mi permette di ragionare su temi che sento molto vivi in quel momento. Io non ho idea di come funzioni il mio rapporto con la creatività, a scuola non ne abbiamo mai veramente parlato, quindi sento il bisogno di capire che cosa mi succede a volte al cervello e perché questo aspetto ha preso così tanto piede nella mia vita. Per quanto riguarda la scienza, mi sono divertito da matti a parlare di fisica come se fosse poesia e viceversa, è stato proprio un piacere. Questa possibilità mi si è aperta perché, appunto, adottavo il punto di vista di chi ha scritto le leggi dell’Universo come se fossero versi di un poema, oppure battute di una commedia. Per me era una figata.
Nel contesto questa rubrica non avevo ancora fatto a nessuno/a questa domanda, ma sento che è arrivato il momento: Filippo, cos’è per te la poesia?
Eheheh, quanto mi sento fortunato che hai deciso di farla proprio a me, Maria (ironico n.d.r.)! Per me la poesia è prima di tutto un brand, diciamo un brand di articoli sportivi, ma anche – e, forse, soprattutto – un genere letterario con una tradizione millenaria e delle regole estremamente precise. In questo senso, mi sento di aggiungere che la poesia per me si rivela, più di ogni altra cosa, nei carrelli del supermercato quando vengono abbandonati al margine dei parcheggi, nelle suonerie a pagamento dei primi anni 2000 tipo “mi chiamo virgola, sono un gattino” e nelle ricette tipiche della cucina ottomana, come il celeberrimo baklava. Non sentirei, infine, di aver dato una risposta completa alla tua domanda se non aggiungessi che per me la poesia è, in primis e pure in secundis, un bel problema rognoso, uno di quelli che dici “ma perché non ho dato retta a mia nonna?”, il corrispettivo letterario della sensazione che provi quando sei seduto nel mezzo di una festa rumorosissima su un appiccicoso divanetto in pelle con in mano un mojito più annacquato delle indagini sulla strage di Ustica e ti chiedi perché non sei restato a casa, cazzo, che fai sempre lo stesso errore da quando hai 13 anni? Ecco, sì. Questo, più o meno, è per me la poesia.
Maria Oppo
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati