La rivolta del corpo. Intervista ad Angela Vettese sul suo nuovo libro
L’autrice di una delle guide all’arte contemporanea più lette di sempre torna in libreria per parlare del corpo e della sua liberazione. Abbiamo incontrato Angela Vettese e l’abbiamo intervistata per saperne di più
Corpi vulnerabili, corpi erotizzati, corpi ibridi, corpi fermi. Sono solo alcuni dei titoli che Angela Vettese ha scelto per i capitoli del suo nuovo libro – La rivolta del corpo. Gli artisti che lo hanno usato, spinto al limite, liberato – pubblicato da poco da Editori Laterza. A pochi mesi di distanza da The Exposed Body, una raccolta di testi curata dall’autrice insieme con Camilla Salvaneschi, Angela Vettese torna a parlare di corpo, indagandolo con occhio critico e multifocale: se tra i nomi menzionati non possono mancare quelli di Gina Pane, Stelarc e Matthew Barney, meno attesi sono quelli appartenenti al mondo del cinema, della moda, dello star system, sempre inseriti in una cornice filosofica che intreccia Roland Barthes, Donna Haraway, Rosi Braidotti, Giorgio Agamben, bell hooks, Franco Rella e molti altri. I confini disciplinari sono labili quando si parla del rapporto tra corpo e Novecento, un secolo che più di ogni altro ha visto inedite spinte verso liberazioni che oggi consideriamo spesso scontate e che, proprio per questo, sono in pericolo. Angela Vettese traccia così un percorso che sottolinea il ruolo della cultura come testimonianza del cambiamento sociale e politico, in un gioco di strutture e sovrastrutture che ha prodotto riflessioni sul corpo ormai indelebili.
Intervista ad Angela Vettese
Le sue ultime pubblicazioni, The Exposed Body (2023) e La rivolta del corpo (2024), sono esplicitamente incentrate sulla corporeità. Perché, a suo avviso, è importante oggi tornare a parlare di corpi?
Perché la tecnologia, la medicina, la mentalità che ci attorniano sono per molti motivi delle sfide alla corporeità. Che si tratti di intelligenza artificiale, tesa a marginalizzare il corpo, o di nuove protesi mediche, o del protagonismo del corpo nello spettacolo, siamo circondati da domande che lo riguardano. L’esplosione stessa di tatuaggi sui corpi dei più giovani è una dimostrazione di come il corpo non sia più assunto come un dato di fatto, ma come un elemento da costruire, da trasformare in entità significante, da manipolare e su cui scrivere la propria identità. Tendenzialmente io sono il mio corpo vivo. Ci sono urgenze scientifiche e sociali che ci chiedono di ricordarcelo. Solo oggi possiamo vedere i nostri organi con mille tecniche diagnostiche, possiamo trapiantarli, cambiarne il funzionamento tramite l’ingestione di molecole attive, passare da un sesso all’altro, transigere a quelle che sembravano leggi ineluttabili e dilazionare di molto persino la morte. Come sono arrivati a credere molti intellettuali, tra cui citerò solo Judith Butler, il corpo solo o alleato ad altri è lo strumento per eccellenza di ogni politica.
Nonostante il libro, a partire dal sottotitolo, si dichiari una ricognizione del corpo nell’arte contemporanea, i confini disciplinari sono piuttosto vaporosi: dall’arte si passa alla moda, al cinema, alla filosofia, fino alla tecnologia e alle ultime teorie scientifiche. Crede sia possibile, oggi, fare parlare di storia dell’arte senza parlare di storia della cultura e della scienza?
Si può, ma a costo di uno specialismo che in questo caso non mi interessava. Sono più attratta dall’idea di fare sintesi che analisi. Scrivere una storia dell’arte in relazione al corpo è relativamente facile, ma in cosa ci aiuta? Potrebbe anzi essere un modo per ribadire la distanza tra arte e cose della vita, quando invece proprio questo settore dell’arte ci spiega come le due cose abbiano un nesso inscindibile. I corpi della moda o dello spettacolo hanno seguito peripezie simili a quelli dell’arte, anche se in modo meno radicale perché legato, indissolubilmente, a una logica economica che sottrae libertà d’azione. La crudezza di certe nudità che si sono viste nei white cube dell’arte o in teatri nascosti, per esempio, non hanno mai potuto conquistare le sale cinematografiche o le passerelle.
A proposito di crudezza, nel libro si fa riferimento ad alcuni esempi estremi della Body Art, come quelli di ORLAN, Chris Burden o Rudolf Shwarzkogler. Come pratica artistica, l’autolesionismo ha ormai raggiunto il suo limite oppure ha ancora qualcosa da dire?
Direi che ha raggiunto il suo limite negli Anni Sessanta e Settanta, quando la frattura con la corporeità tradizionale, accostumata e per bene, si fece urlante e non più dilazionabile.
Il corpo tra natura e tecnologia
Uno dei capitoli centrali del libro è un affondo sul Grande Vetro di Duchamp: perché quest’opera, in cui il corpo è a prima vista praticamente assente, è tanto rilevante?
Il Grande Vetro ci parla di molti aspetti centrali ancora oggi del desiderio erotico in quanto meramente fisico; ribalta i rapporti tra i sessi ridicolizzando i maschi; ci avverte sulle conseguenze di un corpo meccanizzato, cioè quello degli automi del Settecento ma anche quello verso cui ci si stava sporgendo con la robotizzazione del lavoro nelle industrie. Ci parla anche della nostra stupidità nel non sapere raggiungere il semplice risultato del piacere, o forse del fatto che il piacere non è affatto semplice da raggiungere: troppe componenti lo condizionano. C’è una capacità di penetrare cosa ci resta del sacro dopo la laicizzazione della vita, quali spoglie ha lasciato una religiosità divenuta vetusta, che credo resti un punto fondamentale. Tutte le civiltà hanno cercato di congiungere piacere, desiderio, generazione e sacralità. Ma la nostra non più, e non è un cambio da poco. La sua sostituzione con l’ironia è importante, ma indebolisce la centralità dell’eros e il suo porsi a fondamento di quasi tutte le nostre azioni e volizioni.
Nell’epilogo si chiede se la liberazione che il corpo ha subito nel corso della cultura del Novecento sia destinata a resistere a un mondo fatto di intelligenze artificiali. Qual è a suo avviso la minaccia più probabile in questo senso?
L’intelligenza artificiale ci imporrà nuove regole. Ci siamo appena liberati dei busti, dei cappelli a cilindro, delle restrizioni che ci imponeva il buon costume. Potremmo ritrovarci con difficili manuali d’uso dell’AI, da seguire più scrupolosamente di qualsiasi regola etica. Ogni tecnologia ha i suoi comandamenti e quelli dell’AI rischiano di essere molto onerosi. La perdita della libertà mentale, per esempio, della facoltà di sbagliare, di immaginare e ipotizzare. Se mi ritrovo con dei chip sottopelle, se non sono libera di sfuggire al controllo, se sono costantemente sorvegliata da uno strumento che monitora il mio comportamento, sono in carcere anche a casa mia. Peraltro, parliamo anche di corpo sociale: se le decisioni prese dall’AI sono più sensate di quelle umane, che fine fanno il gioco delle opinioni e il dibattito democratico?
Sia che si prefiguri un superamento dell’intelligenza umana da parte delle macchine, sia che si proceda verso una società antispecista e ibrida come proposto da Donna Haraway e dai filosofi postumanisti, il futuro sembra essere destinato ad abbandonare l’antropocentrismo e il corpo umano come misura di tutte le cose. Quale sarà il ruolo dell’arte?
Osservare, riflettere, eventualmente tradurre in immagine quello che consideriamo come un pericolo o come un fenomeno perturbante. Il potere dell’immagine è fortissimo, può aiutare a tenere a freno tentazioni liberticide o comunque a mettere a fuoco cosa sta succedendo alla nostra specie. L’arte non ha mai cambiato il mondo, ma ci ha sempre aiutato a capirlo.
Alberto Villa
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