Intervista a Rosaria Lo Russo, l’artigiana della poesia 

Collaborazioni eccellenti, premi, tante pubblicazioni, un programma di eventi in arrivo da Brac a Firenze. Intervista alla poetessa tra i dodici candidati al Premio Strega Poesia di quest’anno

Un pezzo di storia della poesia scritta e performativa, un’artista originale e versatile che vanta collaborazioni del calibro di Nanni Balestrini, Giorgio Caproni, Iosif Brodskij e tanti altri: parliamo di Rosaria Lo Russo (Firenze, 1964): premio Camaiore 1999, premio Delfini 2001, traduttrice storica di Anne Sexton, attivissima nel panorama artistico italiano attuale. La sua ultima raccolta, Tande, pubblicata nel settembre 2023 presso la casa editrice indipendente Vydia (e disponibile anche su Amazon, come lei stessa raccomanda di specificare), figura tra i dodici candidati al Premio Strega Poesia di quest’anno. Questo è ciò che Lo Russo ci ha raccontato al riguardo. 

Rosaria, la tua presenza in dozzina allo Strega ha conferito visibilità a una piccola realtà editoriale come Vydia. Cosa ci dici di questo? 
Inizialmente non volevo nemmeno partecipare, perché questo fatto dei centoquarantaquattro titoli in gara mi sembrava un’offesa alla dignità. Poi però ho scoperto che era stata la giuria – composta da persone che stimo – a chiedere Tande e allora ho accettato; c’è dunque l’emozione per Vydia, perché non hanno mai avuto un’occasione del genere, ma anche per questo riconoscimento. Io non mando mai i miei libri ai contest perché mi interessano solo quelli con selezione da parte di giurie di esperti; per il resto, nessun premio conta davvero. A prova di questo ti dico che in casa editrice, quando è arrivata la notizia della candidatura, si è gridato all’impennata di vendite. Invece: quattro copie. Quindi… 

Se a contare sono solo le giurie di esperti, qual è la tua opinione riguardo ai contest di poesia con giuria popolare, come ad esempio i poetry slam? 
Sono fortemente contraria e per me andrebbero aboliti. Hanno messo in testa a una generazione di ventenni che quella modalità lì è “la poesia” mentre invece non c’entra nulla e neppure ha il merito di avvicinarli al genere – che era inizialmente l’utopia di Lello Voce – ma al contrario li allontana. Non esiste poeta più performativo di Pascoli o di Dante, ma questo un ventenne se non lo studia non lo può capire e quindi è chiaro che si attacca a modelli più semplici e alla sua portata. Il poetry slam degli inizi era divertente, un gioco tra autori già consolidati a cui ho pure partecipato, sia come sfidante che come organizzatrice. Una volta, pensa, ho anche vinto contro Tiziano Scarpa e questa è una delle cose che più mi riempie d’orgoglio perché è uno dei miei autori preferiti. Quello che si fa ora è intrattenimento, non è poesia, e anche chi chiama in causa l’oralità di Omero per giustificare il poetry slam salta un’infinità di passaggi logici. 

Che relazione esiste tra la tua anima di poeta performativa o quella di poeta su carta? 
Nel mio caso sono due aspetti inscindibili. Ho scoperto fin da quando avevo quattordici anni e studiavo recitazione – erano gli anni ’70 – che ciò che veniva letto ad alta voce assumeva un valore di emozione maggiore. È stato come accendere una miccia. Da lì ho deciso di continuare la mia ricerca sulla vocalità per metterla al servizio della riscrittura fonica della poesia, perché per me la performance poetica è questo: un processo di riscrittura. I contenuti fonici sono già dentro il testo e il lettore li deve solo eseguire. Non è possibile separare le due componenti. Oggi, comunque, anche se scrivo e leggo, dedico la maggior parte del mio tempo alla performance. 

Nella tua opera c’è sempre stata una cura speciale per la lingua, la quale ha dato vita negli anni a uno stile quasi inconfondibile. Questo come si ottiene? 
L’idioletto, il linguaggio della poesia, si fa da solo tramite le ossessioni dell’autore: immagini visive, sonore e nel mio caso inconscio e memoria – che poi sono due capisaldi della letteratura del ‘900 –. Tande sembra scritto poco dopo Comedia che invece è del 1998: è sempre la stessa lingua che si parla da sola attraverso di me. Io non mi metto a tavolino e scrivo perché decido di farlo, ma si accende una specie di motore sonoro nella testa composto da parole. Dante parlava di un qualcosa che si agita dentro, ed è così. Io mi sono ritrovata a stupirmi di quello che stavo creando o a riderne, il che vuol dire che una parte di me stava scrivendo come sotto dettatura. E questo è un fatto, un aspetto estremamente pratico e oggettivo.

Su quali progetti stai lavorando attualmente e qual è quello che ritieni più interessante? 
Al momento sono frastornata e anche un po’ rimbecillita dalla quantità di libri che ho sul desktop e sulla scrivania. Sto costruendo il programma per la libreria Brac di Firenze e quindi sto cercando di capire cosa mi interessa; mi sto orientando molto verso poeti neri americani che scrivono e fanno jazz, sul rebetiko che è un blues greco e infine sto lavorando a una nuova collana di poesia tradotta dal polacco. Spererei di riprendere a lavorare sui testi della Sexton perché il mio sogno nel cassetto, da trent’anni a questa parte, è tradurre l’opera completa. La traduzione è forse il settore dove più è evidente la natura artigianale della poesia; richiede una lavorazione di fino, ossessiva, duratura, persecutoria. Non so se il futuro della poesia andrà verso tempi più brevi, che siano i tre minuti del poetry slam o concetti – che a me sembrano aberranti e contraddittori – come quello di instant poetry. Chi lo sa, io non giudico ciò che non conosco. Ho fatto il mio tempo e mi sta bene, ora spetta a voi. 

Maria Oppo 

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