Overtourism e nostalgia nel nuovo libro del filosofo-chef Senko Karuza

“Isola” di Senko Karuza è una raccolta di racconti che arrivano dall’isola di Lissa: opera di un filosofo-chef che riflette su modernità e tradizione, tra case di pescatori e turismo glamour

Ci sono due gruppi di persone in Italia per cui il nome dell’isola di Lissa può suonare familiare. Il primo è fatto dalle persone appassionate di storia o dei podcast del professor Barbero, che lo avranno sentito citare Lissa per via di una famosa battaglia navale combattuta vicino alle sue coste. Il secondo gruppo è fatto dalle persone che hanno pensato che valesse la pena fare una vacanza nell’Adriatico dal versante orientale, e che hanno fatto qualche tuffo dall’isola che gli autoctoni chiamano con il nome serbo-croato di Vis. La disputa sul nome non è interessante, ma l’isola di per sé sì. Perché Lissa/Vis è al centro di un libro pubblicato in Italia da Bottega Errante intitolato: Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’adriatico.

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Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico (Bottega Errante, 2024). Copertina

Il nuovo libro di Senko Karuza

L’autore, Senko Karuza (Spalato, 1957), si autodefinisce filoso e chef soprattutto da quando ha preso in gestione un piccolo locale proprio sull’isola, e offre ai suoi ospiti piatti di pesce e il vino che lui stesso produce. Non si tratta di un ristoratore prestato alla letteratura, semmai il contrario. Karuza ha all’attivo un’abbondante produzione di racconti e Isola ne è una silloge preparata apposta per l’edizione italiana, in collaborazione tra l’autore e la traduttrice Ginevra Pugliese.
La raccolta di racconti di un autodefinito chef filosofo potrebbe sembrare l’opera di un mitomane, ma Isola non è affatto un libro autocelebrativo. Anzi, è una riflessione severa nella quale l’autore non fa sconti nemmeno a sé stesso.

Isola, racconti su un passato d’oro che non esiste

Il narratore di Isola è un atipico “noi narrante” con una funzione variabile: a volte è come se parlasse a nome di tutta la comunità, a volte è un uomo solo ma che non rinuncia alla pluralità anche quando parla di sé. Questo noi personale e collettivo è un personaggio nato sull’isola, vissuto a Zagabria e ritornato su questo lembo di terra per rifugiarsi in cerca di autenticità. Ha la voce di un uomo anziano, o che si racconta come tale, che ama le cose fatte come un tempo, il pesce alla griglia mangiato con le mani, il caffè bevuto in piazza con gli altri vecchi sbirciando le donne che passano, i riti della vita di campagna e la semplicità.

Vive con fatica il rapporto con la modernità che con una mano dà e con l’altra toglie. A parte le bacchettate scherzose al figlio, vegetariano e fidanzato con una ragazza di città, il rapporto dolceamaro più complesso è quello con i turisti. Sono quelli che gli permettono di vivere e che animano un luogo che altrimenti morirebbe con i suoi vecchi, ma allo stesso tempo lo indignano e gli rubano l’identità. “Non c’erano più i nostri asini, capre o galline, che ci davano molta più gioia e meno fatica, perché ci dicevano chi eravamo. I turisti ora vanno e vengono e l’unica cosa che ci lasciano è la sensazione di vuoto in noi”.

Quasi un “umarell” in salsa dalmata, che al posto dei cantieri fissa perplesso le stravaganze dei ricchi e ripensa con nostalgia a quando portava le pietre a dorso d’asino. Se fosse così, Isola sarebbe un libro evitabile. Invece Karuza, a partire da questo, fa letteratura. Creando delle piccole crepe nella narrazione dell’isola dove vive, in quella di sé stesso e della sua vocazione professionale.

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Un ritratto di Senko Karuza

Isola di Senko Karuza, dalla Croazia una riflessione sulla vita di oggi

Il noi narrante di questi racconti è molto meno monolitico di quanto esso stesso voglia fare apparire. La nostalgia per i bei tempi andati è l’ombrello più comune sotto cui nascondere le proprie paure, ma proprio qui Karuza strappa da solo il cielo di carta di questa narrazione per mostrarne la debolezza.

“Abbiamo fatto di tutto per far dimenticare ai nostri figli e nipoti quello che avevamo costruito e di cui vivevamo. Adesso ci risulta difficile non avere il diritto di impietosirci della terra che rimane sola, ci sembra di aver commesso un’ingiustizia mostrando che questo nostro amore non vale nulla”.
Qual è l’approccio giusto? Aggrapparsi al passato o lasciare scorrere il tempo? Accettare la turisticizzazione massiccia o combatterla? Abbandonare la campagna per andare in città è una vera cura o un capriccio borghese? Karuza si guarda bene dal dare una risposta univoca, da filosofo e scrittore svela la complessità senza la presunzione di poterla risolvere, e così Isola è un viaggio narrativo dal quale usciamo più consapevoli ma anche più dubbiosi.

Isola di Senko Karuza, racconti senza protagonisti

Dal punto di vista puramente narrativo, i racconti che compongono Isola non hanno una struttura convenzionale, non hanno spesso nemmeno un filo narrativo vero e proprio, sono più dei ritagli dalla vita sull’isola che a volte hanno volti ricorrenti e a volte non ne hanno nessuno. Al centro c’è sempre il noi narrante di cui abbiamo parlato, unico, ma sempre plurale e sfaccettato. Anche la lingua di Senko Karuza è molto sfaccettata, un misto di registri che tocca punte altissime e altre bassissime, con riflessioni poetiche che si alternano a battute da osteria e bestemmie colorite. Il risultato è un affresco pieno di vita, con merito della traduttrice Ginevra Pugliese che lo ha reso bene in italiano.

Leggere Isola è un modo per immaginare la vita vera a Lissa/Nis, ma anche un invito a guardare da varie prospettive il modo in cui facciamo esperienza dei luoghi e delle storie, in un tempo come il nostro in cui le narrazioni sembrano fatte per essere cotte, mangiate e digerite nel tempo di un amen. “Non ci importa dei turisti che guardano esterrefatti per come ci siamo appropriati della strada, alcuni vorrebbero addirittura sapere se c’è posto per loro, perché sono qui da una settimana, ma una cosa del genere ancora nessuno gliel’ha preparata. Non è nella nostra natura non dare, ma stavolta allarghiamo spiacenti le braccia e diciamo no, no, solo familija, capito, continuiamo, rigiriamo il pesce e con il bastone ammucchiamo le braci, li guardiamo di sottecchi come se volessimo mostrare che noi possiamo vivere bene anche senza viaggiare”.

Salvatore Greco

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