Il padre, il centro, la dittatura. Intervista al poeta Riccardo Frolloni 

Quella del trentunenne Riccardo Frolloni è una poesia sporca ma al tempo stesso estremamente pulita: ne parliamo con lui, affrontando i temi della sua nuova raccolta intitolata “Amigdala”

La regola era che tutte le donne 
fossero baciate in bocca, 
io invece non volevo fare le divisioni, spiego 
che non le avevo ancora fatte a scuola, le divisioni, 
e forse ci aveva creduto, Ideale, vorrei tanto ricordare 
lo sguardo di mio padre deluso del genio che non ero. 

Per questo ritratto nuovo ci siamo rivolti a una giovane voce; un poeta la cui scrittura offre un senso insieme di sconcezza e di rigorosa pulizia, e in questa doppia anima trova una sede coerente, perfetta. Nell’ultima opera di Riccardo Frolloni (Macerata, 1993) abbiamo trovato un raffinato e necessario schiaffo sul volto, che arrivasse dritto al punto e fino al centro della mente, come rievocato anche dal titolo. Amigdala (Nino Aragno Editore, 2024), infatti, è un viaggio complesso tra diverse forme espressive: la prosa, la poesia e le fotografie. Questa scelta formale ci ha incuriosito a tal punto che lo abbiamo scelto per aprire la nuova stagione di articoli poetici. Laureato in Italianistica presso l’Università di Bologna, Frolloni pubblica Corpo striato (Industria & Letteratura 2021; Premio PordenoneLegge – I Poeti di Vent’anni; Premio Versante Ripido) e Amigdala. Ha tradotto Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione di Richard Harrison (‘roundmidnight edizioni 2018) e Non praticare il cannibalismo, antologia dell’opera di Ron Padgett (Del Vecchio Editore 2021). Scrive per la rivista musicale Impatto Sonoro e ha fondato l’associazione Lo Spazio Letterario. Insegna italiano e latino nei licei.  

Intervista a Riccardo Frolloni 

La tua ultima opera, Amigdala, è un racconto in versi con prosa e immagini, non descrivibile, non impacchettabile. Da dove nasce questo tuo cercare una forma ibrida, ammesso che tu l’abbia cercata e non sia piuttosto venuta da sé? 
Amigdala è frutto di un processo molto lungo, di un lavoro durato anni e che ha portato a molti rimaneggiamenti, sperimentando diverse forme narrative e poetiche. Nel tempo mi sono accorto che il racconto aveva bisogno di un ritmo obliquo, che non fosse solo orizzontale nel verso e neanche verticale nella pagina, nella lunghezza della poesia; c’era bisogno di un ritmo anche nello sfogliare delle pagine, perciò ho scelto di introdurre queste fotografie e alcune prose tecniche, scientifiche o di aneddoto, che avessero un ritmo differente, un tono più freddo. 

Il tuo libro, come dicevamo, si chiama Amigdala; come un essere fremente di vita indovato nel cervello, dunque al nucleo di tutto. Ma parla anche di ciò che sta ai bordi, di lontananze, di comunità escluse. Qual è il tuo rapporto con il centro e quale quello con il margine? 
Mi sto rendendo conto che negli ultimi anni il centro della mia scrittura è familiare, sto cercando di tracciare una storia che abbia come perno i miei genitori e io come satellite. Naturalmente è tutta una finzione e pure i dettagli più specifici sono manipolati e rimaneggiati, come strumenti utili per la narrazione. Il centro dunque è periferico, il posto da cui provengo, Sarnano, un paesino dell’entroterra maceratese, tra i Monti Sibillini. Ma a volte alcune avventure partono dalla periferia e si diramano, così come il racconto dei miei genitori che dal paesino tentano la conquista dell’est post-sovietico inseguendo un sogno di riscatto fatto di denaro e amore tossico. 

C’è un’aria, nel tuo libro, un sentore di tirannia che congela e incupisce circostanze e personaggi. Cosa ti ha portato a parlare di dittatura e che ruolo ha la politica nella tua scrittura? 
Hai perfettamente ragione, ho voluto e ricercato quest’aria pesante di cui parli. Non riesco ancora a scrivere direttamente versi civili, ma mi rendo conto che la storia, anche quella con la maiuscola, mi attrae, è dentro essa che i miei personaggi si muovono e prendono significato. Nel caso di Amigdala la dittatura è quella strisciante del capitalismo che attrae e manipola, in varie forme e tramite diversi mezzi, anche umani, ed è una dittatura che si manifesta immediatamente dopo il crollo di un’altra dittatura, quella di Nicolae Ceaușescu, maniaco di una grandezza effimera. 

La poesia di Riccardo Frolloni 

Il tuo testo ricorda a tratti Spoon River, a tratti la prosa di Atzeni, ma arrivata alla fine ho realizzato di aver letto ciò che inconfondibile era Riccardo Frolloni. Quanto credi nel trovare uno stile che sia proprio, e com’è stato il tuo percorso per arrivarci? 
Mi onora essere affiancato a nomi simili, ti ringrazio. Non credo di aver trovato ancora uno stile che sia mio, credo di aver sperimentato diverse forme e che queste si siano ben accordate con i fini dei libri che ho scritto. Mi verrebbe da dire che ho trovato il mio verso, anche se mutevole; credo cioè di riuscire ora a sentire quella sorta di ritmo interiore che detta la poesia quando è il momento giusto di scriverla. Il dialogo mi ha permesso di arrivare all’ascolto, dialogo con i poeti della mia generazione, con le sorelle e i fratelli maggiori, il dialogo con i maestri; un dialogo fatto di incontri e scontri, quando la poesia non è sacrale ma è materia da maneggiare, usurare anche, distruggere e costruire, in una sorta di laboratorio permanente. 

La poesia è spesso centripeta, egocentrica, strumento della vanità dell’autore. Il tuo libro invece, al contrario, sembra perlopiù dire parole di altri. Quanto è importante per te e per la tua ricerca mettere da parte te stesso? 
Credo che l’io sia inalienabile, ci si prova, a volte in tutti i modi, ma difficilmente si riesce. Eco diceva che c’è l’io anche nella lista della spesa. Eppure credo fondamentale evitare l’egocentrismo in poesia: non interessa a nessuno il tuo patema, non interessi a nessuno. In tutte le opere d’arte, che siano plastiche, performative, musicali o quant’altro, l’io dell’artista è derivato, desunto. Può essere protagonista, ma sempre personaggio; il Dante della Commedia non è l’Alighieri. Ho scritto un libro che si intitola “Corpo striato” ed è una serie di momenti che ruotano intorno alla figura di mio padre morto. Non potevo in nessun modo permettere che la vera storia di mio padre fosse ridotta a una poesia, avevo piuttosto bisogno di narrare questa storia, di farla diventare altro, di impossessarmene e di tramutarla in qualcosa di altro, qualcosa che sia possibile da condividere. In poesia ci si allontana per avvicinarsi, è uno strano e meraviglioso gioco.  

Maria Oppo 

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