La regola era che tutte le donne
fossero baciate in bocca,
io invece non volevo fare le divisioni, spiego
che non le avevo ancora fatte a scuola, le divisioni,
e forse ci aveva creduto, Ideale, vorrei tanto ricordare
lo sguardo di mio padre deluso del genio che non ero.
Per questo ritratto nuovo ci siamo rivolti a una giovane voce; un poeta la cui scrittura offre un senso insieme di sconcezza e di rigorosa pulizia, e in questa doppia anima trova una sede coerente, perfetta. Nell’ultima opera di Riccardo Frolloni (Macerata, 1993) abbiamo trovato un raffinato e necessario schiaffo sul volto, che arrivasse dritto al punto e fino al centro della mente, come rievocato anche dal titolo. Amigdala (Nino Aragno Editore, 2024), infatti, è un viaggio complesso tra diverse forme espressive: la prosa, la poesia e le fotografie. Questa scelta formale ci ha incuriosito a tal punto che lo abbiamo scelto per aprire la nuova stagione di articoli poetici. Laureato in Italianistica presso l’Università di Bologna, Frolloni pubblica Corpo striato (Industria & Letteratura 2021; Premio PordenoneLegge – I Poeti di Vent’anni; Premio Versante Ripido) e Amigdala. Ha tradotto Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione di Richard Harrison (‘roundmidnight edizioni 2018) e Non praticare il cannibalismo, antologia dell’opera di Ron Padgett (Del Vecchio Editore 2021). Scrive per la rivista musicale Impatto Sonoro e ha fondato l’associazione Lo Spazio Letterario. Insegna italiano e latino nei licei.
Intervista a Riccardo Frolloni
La tua ultima opera, Amigdala, è un racconto in versi con prosa e immagini, non descrivibile, non impacchettabile. Da dove nasce questo tuo cercare una forma ibrida, ammesso che tu l’abbia cercata e non sia piuttosto venuta da sé?
Amigdala è frutto di un processo molto lungo, di un lavoro durato anni e che ha portato a molti rimaneggiamenti, sperimentando diverse forme narrative e poetiche. Nel tempo mi sono accorto che il racconto aveva bisogno di un ritmo obliquo, che non fosse solo orizzontale nel verso e neanche verticale nella pagina, nella lunghezza della poesia; c’era bisogno di un ritmo anche nello sfogliare delle pagine, perciò ho scelto di introdurre queste fotografie e alcune prose tecniche, scientifiche o di aneddoto, che avessero un ritmo differente, un tono più freddo.
Il tuo libro, come dicevamo, si chiama Amigdala; come un essere fremente di vita indovato nel cervello, dunque al nucleo di tutto. Ma parla anche di ciò che sta ai bordi, di lontananze, di comunità escluse. Qual è il tuo rapporto con il centro e quale quello con il margine?
Mi sto rendendo conto che negli ultimi anni il centro della mia scrittura è familiare, sto cercando di tracciare una storia che abbia come perno i miei genitori e io come satellite. Naturalmente è tutta una finzione e pure i dettagli più specifici sono manipolati e rimaneggiati, come strumenti utili per la narrazione. Il centro dunque è periferico, il posto da cui provengo, Sarnano, un paesino dell’entroterra maceratese, tra i Monti Sibillini. Ma a volte alcune avventure partono dalla periferia e si diramano, così come il racconto dei miei genitori che dal paesino tentano la conquista dell’est post-sovietico inseguendo un sogno di riscatto fatto di denaro e amore tossico.
C’è un’aria, nel tuo libro, un sentore di tirannia che congela e incupisce circostanze e personaggi. Cosa ti ha portato a parlare di dittatura e che ruolo ha la politica nella tua scrittura?
Hai perfettamente ragione, ho voluto e ricercato quest’aria pesante di cui parli. Non riesco ancora a scrivere direttamente versi civili, ma mi rendo conto che la storia, anche quella con la maiuscola, mi attrae, è dentro essa che i miei personaggi si muovono e prendono significato. Nel caso di Amigdala la dittatura è quella strisciante del capitalismo che attrae e manipola, in varie forme e tramite diversi mezzi, anche umani, ed è una dittatura che si manifesta immediatamente dopo il crollo di un’altra dittatura, quella di Nicolae Ceaușescu, maniaco di una grandezza effimera.
La poesia di Riccardo Frolloni
Il tuo testo ricorda a tratti Spoon River, a tratti la prosa di Atzeni, ma arrivata alla fine ho realizzato di aver letto ciò che inconfondibile era Riccardo Frolloni. Quanto credi nel trovare uno stile che sia proprio, e com’è stato il tuo percorso per arrivarci?
Mi onora essere affiancato a nomi simili, ti ringrazio. Non credo di aver trovato ancora uno stile che sia mio, credo di aver sperimentato diverse forme e che queste si siano ben accordate con i fini dei libri che ho scritto. Mi verrebbe da dire che ho trovato il mio verso, anche se mutevole; credo cioè di riuscire ora a sentire quella sorta di ritmo interiore che detta la poesia quando è il momento giusto di scriverla. Il dialogo mi ha permesso di arrivare all’ascolto, dialogo con i poeti della mia generazione, con le sorelle e i fratelli maggiori, il dialogo con i maestri; un dialogo fatto di incontri e scontri, quando la poesia non è sacrale ma è materia da maneggiare, usurare anche, distruggere e costruire, in una sorta di laboratorio permanente.
La poesia è spesso centripeta, egocentrica, strumento della vanità dell’autore. Il tuo libro invece, al contrario, sembra perlopiù dire parole di altri. Quanto è importante per te e per la tua ricerca mettere da parte te stesso?
Credo che l’io sia inalienabile, ci si prova, a volte in tutti i modi, ma difficilmente si riesce. Eco diceva che c’è l’io anche nella lista della spesa. Eppure credo fondamentale evitare l’egocentrismo in poesia: non interessa a nessuno il tuo patema, non interessi a nessuno. In tutte le opere d’arte, che siano plastiche, performative, musicali o quant’altro, l’io dell’artista è derivato, desunto. Può essere protagonista, ma sempre personaggio; il Dante della Commedia non è l’Alighieri. Ho scritto un libro che si intitola “Corpo striato” ed è una serie di momenti che ruotano intorno alla figura di mio padre morto. Non potevo in nessun modo permettere che la vera storia di mio padre fosse ridotta a una poesia, avevo piuttosto bisogno di narrare questa storia, di farla diventare altro, di impossessarmene e di tramutarla in qualcosa di altro, qualcosa che sia possibile da condividere. In poesia ci si allontana per avvicinarsi, è uno strano e meraviglioso gioco.
Maria Oppo
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