si riuniscono attorno a uno per scaldarlo
o mangiarlo – uno lo saluta, gli sorride non sa cosa,
ha le cuffie bluetooth e ascolta Morning
che ha paura gli rimanga in testa,
che parla della conferenza di Glasgow, di riforestazione,
pensa che qualsiasi cosa si faccia verrà incendiata
come si incendiano la spazzatura e gli alberi in estate.
Non sappiamo come continuare è una raccolta autopubblicata, ritorno poetico di Demetrio Marra (Reggio Calabria, 1995) dopo l’esordio con Interno Poesia. Per comprendere meglio che persona sia il poeta in questione riporterò questo aneddoto: conobbi Marra al Salone del Libro di Torino 2023, e ricordo che ruppe il ghiaccio chiedendomi se mi capitasse mai di riflettere sulla caducità della vita, o qualcosa del genere. La mia risposta – dettata dalla stanchezza – fu breve, evasiva, e questo fatto mi tornò spesso in mente. Pensai che, tornando indietro, avrei fatto meglio a cogliere quell’occasione di dialogo. Passò del tempo prima che lo ritrovassi in veste di autore; Marra è laureato in Filologia moderna all’Università di Pavia; ha frequentato il Master Il lavoro editoriale della Scuola del libro di Roma. È parte di lay0ut magazine, rivista di letteratura, traduzione e ricerca visuale. Ha esordito con Riproduzioni in scala (Interno Poesia), con prefazione di Flavio Santi. Non sappiamo come continuare è il suo secondo libro di poesie; una raccolta densa e a tratti spiazzante, così com’era stato lui in quel piovigginoso pomeriggio torinese. Questo nostro scambio, finalmente rispettoso dei suoi tempi e della sua lucidità, da oggi appartiene anche a voi. Buona lettura.
Intervista a Demetrio Marra
Demetrio, devo dirti che ho trovato le note finali di Non sappiamo come continuare interessanti quanto le poesie. Una frase su tutte ha attirato la mia attenzione: “facciamo che scrivo un testo e facciamo che sia in prosa, così tutto il discorso sul pubblico della poesia lo rimandiamo” (qualche pagina dopo confessi che sì, il tuo testo rientra nel genere poetico e dunque anche in questa rubrica: impiccio risolto!). Cosa temi, in particolare, del discorso sul pubblico della poesia e cosa lo rende più impegnativo di quello della prosa?
Ho paura di tante cose: della morte e del contagio, per dire, e della separazione. Non certo del discorso sul pubblico della poesia. In Italia l’editoria di poesia è in gran parte amatoriale. La conseguenza è che la poesia viene letta pochissimo e in gran parte dei casi da scrittori, scrittrici, nonché persone del settore. L’assenza di un pubblico – nonostante passi l’idea che sia necessario “scrivere per sé” e non per il lettore per fare davvero ricerca, quindi arte – in realtà rende la scrittura a-conflittuale. Ci si può anche illudere che il conflitto interiore sia il conflitto dei conflitti, ma la verità è che senza chi legge, che ha una posizione per forza distante dalla propria, è più complesso mettersi radicalmente in discussione. Per questo credo che l’amatorialità dell’editoria di poesia sia voluta: scrivere in versi, oggi, è davvero confortevole. È fuor di dubbio che una professionalizzazione dell’editoria di poesia, qualora la perseguissimo, debba andare di pari passo con una critica del mercato (meglio se materialista), perché è il mercato a condizionare al ribasso la scrittura, non il pubblico.
Dai tuoi versi, dove frenetica ricorre la strada, le rivolte, il disagio giovanile, non ho intuito alcun condizionamento dettato dallo sguardo del lettore. Ciò che mi è arrivato è soltanto il cuore grezzo delle parole, spogliate da qualunque esigenza di revisione. Nient’altro che un’urgenza. È così?
No, non esattamente. Quella che tutti chiamano ispirazione, maledetto Croce, è per me una “saturazione”. Quando ho un’idea fissa, che ne so: la catastrofe (mi capita spesso), la mia mente lavora creativamente attorno all’idea, sia in background (come rimuginando) sia consapevolmente (leggo robe sulla catastrofe, guardo film, ne parlo eccetera). A un punto, queste continue significazioni danno il via alla scrittura. La “sciatteria” del verso (che credo sia ciò che tu dici essere “il cuore grezzo delle parole”) è cercata, perché la mia idea di scrittura è per la simulazione dell’immediatezza, cosa impossibile però. Impossibile ma non illegibile: la nostra idea di immediatezza sarà sempre impossibile. Il lettore e la lettrice per me sono molto importanti. Non scrivo per me, quando non scrivo sto in pace. Scrivo per trasformare metaforicamente non per forza il dolore, ma l’intuizione dell’anello che non tiene. Insomma per fondare continuamente, insieme a tante altre, una narrazione del conflitto con la realtà politica.
La poesia secondo Demetrio Marra
Se è vero che la raccolta risulta autentica e schietta nella sua scrittura, in postfazione affermi “questi testi non li sento più miei“. E dunque pubblicarli – anzi, autopubblicarli dopo un esordio con una casa editrice importante come Interno Poesia – che funzione ha avuto per te?
Di liberazione. Non sono un grandissimo fan dei lunghi periodi, ho una paura folle di perdere la vivacità, il desiderio di conflitto. Buttarli fuori così in questo modo sarebbe stato l’unico modo di preservare la carica antistituzionale.
Un concetto che torna spesso è quello di “comunità”. La poesia è più una cosa del singolo o più una cosa della comunità, secondo te?
Non secondo me, ma per me: la poesia è un tentativo di riportare l’io sul piano del politico. Scrivo per partecipare alla trasformazione di ciò che è intimo e relazionale in comunità. Il sottotitolo è infatti Nove processi biofisici, che sembra alludere alle mie funzioni vitali e invece allude alle funzioni vitali del pianeta, ai limiti che non possiamo valicare se vogliamo evitare l’estinzione. In Non sappiamo come continuare provo a raccontare, alla fine, proprio la liberazione dal dolore narcisistico (qui: un disturbo ansioso debilitante) attraverso il movimento. È una direzione contraria, credo, a buona parte del fare poesia in Italia oggi, che è tutto un riportare la realtà nell’intimità: ricondurre l’alterità all’io. Ma il mio è pensiero del fuori.
Tra le altre tue attività gestisci un magazine di letteratura chiamato lay0ut; ci descrivi un po’ i connotati di questa rivista? C’è un’autrice (o un autore), tra le vostre collaborazioni, che consigli di tenere d’occhio
lay0ut è una rivista di letterature, traduzione e ricerca visuale nata nel 2021 da un gruppo di cinque persone, quattro poet* e una storica dell’arte. L’obiettivo era cambiare un po’ il mondo delle riviste di settore, un po’ polverose e soprattutto troppo ossessionate dalla poesia. Noi avremmo voluto far tutto. Dopo due cartacei, due festival, numerosissimi eventi, una linea editoriale sempre più militante, molte defezioni e tante nuove entrate, siamo un po’ in uno stallo: dobbiamo ancora capire cosa vogliamo far da grandi. Abbiamo due rubriche che pubblicano autor* secondo una precisissima e selettiva idea di letteratura, oserei dire sperimentale: Opera morta, di prosa narrativa; Presa d’aria, di poesia (e prosa non narrativa, direi). Dateci un occhio!
Sono solo pensando che sei qui mi
chiami quando sei a casa mi
dici dove siamo finiti dove
si è arenato il progetto
di una stalla di una funzione.
Siamo morti due volte, mi scrivi.
La prima volta in coma nove mesi,
la seconda volta il cuore novant’anni.
Maria Oppo
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