Di Nicola Barbato (Aversa, 1996) mi piace sempre dire che, tra tanti che nella vita fanno i poeti, lui un poeta lo è; per genetica, per costituzione, forse per maledizione. Barbato si presenta in società come un tipo curvo e disfonico; a fargli da appendici – quasi sempre – una sigaretta e un bicchiere pieno offerto da qualcuno, o da offrire a qualcun altro. È laureato in filologia moderna all’Università di Napoli Federico II, fa parte della redazione di Inverso – Giornale di poesia e del collettivo Diverbio. Lo scorso 24 novembre è uscito per Eretica Edizioni il suo primo libro di poesie, I cani nel cervello, dopo diversi anni dedicati prevalentemente all’oralità e che hanno portato Barbato a diventare campione campano di Poetry Slam nel campionato LIPS – Lega Italiana Poetry Slam per due anni consecutivi (2023-2024). Questo è il dialogo che abbiamo avuto e che prova a raccontare un esordio che è anche un grido, una battuta sconcia, a tratti una dichiarazione d’amore.
L’intervista a Nicola Barbato
I cani nel cervello è la tua prima raccolta di poesie, in uscita il 25 novembre per Eretica edizioni. Come ci arrivi?
I cani nel cervello dicono degli incontri degli ultimi quattro anni. Nel 2020 lavoravo in un locale ad Aversa, il Theo. Era l’osteria del tempo perso: “i moralisti han chiuso i bar/ e le morali han chiuso i vostri cuori e spento i vostri ardori”; oggi è un negozio di bomboniere. Un giorno entrò Mattia (Tarantino, ndr): da adolescenti stavamo tra i randagi di Piazza Municipio; entrambi ne eravamo scappati in modi diversi facendo dei giri larghi. La provincia è quella cosa che ti dà tre motivi per andartene e dieci per restare. Quel giorno, comunque, cinque minuti e Mattia mi chiese se avessi delle poesie da fargli leggere. Dopo una settimana, gli consegnai un poemetto di duecento e passa versi; se ne sono salvati dodici: “le lettere dell’alfabeto italiano sono ventuno” diventò il primo testo di un fatto che non ho saputo più controllare.
Nonostante i titoli di studio e l’esperienza nella redazione di Inverso, la tua cifra stilistica principale è questo senso di caos, di abbaiare appunto, di non esserci neanche rimasto a pensare troppo, mentre scrivevi. È davvero così? Come nasce una tua poesia?
Le riunioni di redazione di Inverso sono esperienze allucinatorie. Per quanto riguarda lo studio universitario, mi ha permesso di conoscere dimensioni e persone determinanti per capirlo bene questo senso di caos. Stare in mezzo alla piazza a guardare i vecchi che giocano a scopa e stare sui libri a capire la vario lectio di un canto dantesco sono cose preziose, privilegi. Peccato che in Italia l’impalcatura scolastica sembra fatta apposta per abituarci a lavorare in una qualche azienda. L’abbaiare è un metodo. Mi guardo molto intorno: là fuori c’è così tanta roba che la metà basterebbe per impazzire. Se penso a “una madre conta i centimetri di terra” ho impiegato diversi mesi per sentirla finita. Come se mi fossi dato tempo di vedere altro da quel loop di morte diffuso che il testo denuncia. Non c’era.
C’è un sentimento che ritieni più importante degli altri da proteggere e coltivare, in poesia?
I sentimenti sono discorsi problematici, specie nella comunicazione barbaradursiana, all’ora di pranzo, nelle Tv di Stato, dove vengono chiamati in causa quando si sta parlando di una donna ammazzata da un uomo: in questo caso funziona meglio il ‘proteggersi dai sentimenti’ e ‘coltivarne una forma radicalmente altra’, nelle arti e ovunque. Fare poesia ci permette di riconoscerci, ci dà in una comunità, così che io posso guardarti negli occhi, tu puoi guardare me, possiamo ascoltarci, essere d’accordo e, nel migliore dei casi, essere in contrasto. Se vogliamo guardare ai sentimenti con gli occhi della luce allora la poesia può difendere e coltivare la sua possibilità di unire persone e lotte.
Entità centrali tra i tuoi versi sono gli ultimi, gli amici della piazzetta, la polvere che riempie le fughe delle mattonelle. A chi pensi più spesso, nel momento in cui tieni la penna in mano?
Quando scrivo cerco di pensare precisamente alle cose che scrivo: sicuramente mi capita di pensare spesso agli ultimi, agli amici della piazzetta, e alla polvere che riempie le fughe delle mattonelle. Sono tra le cose che fanno abbaiare i cani.
Non hai paura che questo libro abbia successo?
Potremmo avere paura di molto altro. Sono contento che la poesia sia la meno capitalisticamente spendibile tra le produzioni artistiche. Comunque, sì, bisogna assumersi la responsabilità della propria gioia, e il libro è subito un discorso pubblico. Bisogna giocare con serietà.
La poesia di Nicola Barbato
Di chi ti ricordi quando venti sigarette,
venticinque, per sprecare il tempo,
di chi ti ricordi quando sorridere
pesa come il mondo, e senza erba,
e senza erba, e venti sigarette,
venticinque, per non sentirlo più
il tempo, per guardare dall’alto
Mirko e Maria e Gloria, che mangia ma poco,
ma vuoi mettere digerire spade, vuoi mettere
che siamo le bestie, gli insonni, e l’acqua fuoco ora
è ovunque,
una scintilla,
il cimitero esplode.
Così partì la carovana.
Marameo, dirai, marameo, dirò:
il vino lo bevi da un prezzo in su,
LA TUA COLLANA DI PERLE LA VENDERÒ
PER LA DROGA. Ascoltami, mi dici.
Ascolta ciò che non ti dico, ti dico
e ti dico: bagna il biscotto, sono il latte che bevi
al mattino, sono il sole che ti fa caldo,
il respiro dell’orgasmo – ora è un altro giorno.
Maria Oppo
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