La scomparsa di Sergio Toppi, l’audace
Maya o non Maya, per gli appassionati dell’arte del fumetto questo 2012 è già stato abbondantemente apocalittico e luttuoso. Almeno tre le scomparse eccellenti e costernanti, di altrettanti maestri indiscussi della narrazione disegnata: il parigino Jean Giraud Moebius, il newyorkese Joe Kubert, il milanese Sergio Toppi.
Fra gli scomparsi del mondo del fumetto in questo 2012, il meno strettamente fumettista e più illustre-illustratore è stato Sergio Toppi (Milano, 1932-2012), uno dei pochi autori nazionali (con i già scomparsi Battaglia, Pratt, Crepax) a essere riconosciuto e amato a livello mondiale come uno dei grandi sperimentatori e rivoluzionatori del fumetto d’arte del Novecento.
Nel cinquantennio abbondante della sua carriera, Toppi ha lavorato inizialmente come illustratore di libri per ragazzi, poi come scenografo e sceneggiatore per i cartoni animati di Carosello (presso gli studi di animazione Pagot, ad esempio per Calimero & C.), a lungo come fumettista per Corriere dei Piccoli, Corriere dei Ragazzi, Messaggero dei Ragazzi, Il Giornalino e infine come autore completo di molte storie brevi per riviste (Sgt. Kirk, Linus, Alter Alter, L’Eternauta, Corto Maltese, Comic Art) e libri in Italia e nel mondo, ma fumettista e illustratore molto sui generis.
Caratterizzato da uno stile sempre riconoscibilissimo, di eleganza barbarica, a base di forti grovigli di segni, duro realismo figurativo mai consolatorio, impressionante aderenza alla verosimiglianza storica, predilezione dapprima per i tagli orizzontalizzati e poi sempre più per quelli verticalizzati, inchiostri neri pesanti, continue rotture della gabbia regolare delle vignette, impaginazioni asimmetriche, e infine tavole che raccontano contemporaneamente il vicino e il lontano e il prima e il dopo in un’unica immagine composita, quasi una estenuata e incatenante dissolvenza incrociata, non si direbbe affatto un autore di facile presa sul pubblico: non su quello bambino e in teoria nemmeno su quello adulto.
Eppure, alla sua morte, ottantenne, in un lampo si è diffuso tra i più vari popoli della Rete un cordoglio sincero e dolorante decisamente insolito. Ci si è accorti infine – troppo tardi, come al solito quando si palesa un vuoto – della grandezza di un artista che una volta di più veniva riconosciuto profeta più all’estero che in patria. La solita polemica, imperitura.
Ma torniamo all’arte fascinatoria di Toppi. Avendo pubblicato per decenni, al contempo, su periodici per i “piccoli” e per i “grandi”, evidentemente gli è riuscito di scavare qualche breccia ben profonda negli animi dei suoi lettori. Ostico, sì, di primo acchito; ma poi avvolgente per la sua ostinata concezione anticonformista: una visione grave, fin un poco minacciosa, ma senza essere deprimente. Tanto nei contenuti delle storie narrate quanto nella forma. E poi, è probabile che a graffiare la retina di ciascuno fosse la sua indiscutibile originalità segnica, compositiva, cromatica. Tutto il contrario della narrativa grafica che va per la maggiore, caratterizzata da figurazioni ben leggibili, impaginazioni regolari, colorazioni rassicuranti. Toppi no, tutto il contrario. Lui incuteva come minimo il rispetto che si riserva agli audaci.
E allora, una volta tanto, ci si scopre felicemente sorpresi della possibilità che il pubblico medio non pecchi troppo di cattivo gusto, come suo solito. L’adesione emotiva all’universo toppiano rivela a sorpresa che anche noi tanto vituperati ragazzacci italiani siamo in grado di apprezzare – a volte – proposte estetiche non banali, poetiche espressive non tranquillanti. Non sembra vero.
Ferruccio Giromini
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