“Sono solo un artigiano!”
Se ne va l'uomo mite. Se ne va l'uomo gentile. Se ne va l'uomo dell'avventura. Se ne va l'artista che amava definirsi un'abile artigiano. Ma chi lo conosce sa che nei suoi lavori non c'è mai stata solo la tecnica. Sergio Toppi avrebbe compiuto ottant'anni a ottobre.
“Per favore, non chiamatemi maestro”. Te lo diceva con gentilezza. Ma, nel farlo, Sergio Toppi era risoluto. Una determinatezza che a ben vedere stava solo nella sua mano. Perché l’uomo, prima dell’artista, era riconosciuto e riconoscibile da tutti come persona garbata, gentile, timida e perfino troppo umile. No, non sono lusinghe che si riservano solo ai morti. Credeteci, non è così. Nel mondo del fumetto, dove l’artista non diventa mai una star – né persona popolare né tantomeno ricca – Toppi si collocava come l’ultimo (o quasi) dei gentiluomini di antico stampo. Ben vestito, cortese con chiunque, ha sempre indossato occhiali démodé come se volesse nascondere il suo sguardo timido e acuto. Un voyeur d’altri tempi innamorato del west e dell’avventura. Un uomo che, come Salgari, ha raccontato luoghi e tempi lontani senza mai averli davvero vissuti.
In mezzo secolo di disegni e illustrazioni, Toppi ha attraversato tutti e cinque i continenti. Fino a sfiorare l’ignoto. Come spesso accade, era forse più amato in Francia. Lì aveva pubblicato Sharaz-de, riscuotendo un enorme successo. E sempre lì, durante una mostra parigina agli inizi degli Anni Zero, Le Figaro non si risparmiò in complimenti, paragonando il nostro piccolo artigiano milanese a Klimt e Schiele. Eh sì, Toppi non voleva essere chiamato artista. Né maestro. “Perché non lo volete capire? Sono e resto un artigiano”. Un artigiano capace di raccontare in una sola pagina illustrata una storia complessa. “Ecco, questo è uno dei motivi per cui ho sempre preferito le illustrazioni al fumetto”, ci raccontò nell’ormai lontano 2007. “Rinunciando a schemi tradizionali, come la sovrapposizione di veduta, si possono ottenere buoni risultati”. Buoni, diceva. Mai ottimi. Questo perché ha sempre visto nell’opera di altri disegnatori qualcosa di migliore. “Guardo sempre i lavori degli altri con grande attenzione. A volte provo perfino un’invidia positiva. Ammiro le loro capacità. Io? Beh, sono sempre stato attento a non montarmi la testa. Ho sempre continuato a mettermi in discussione. Avere questa capacità è sempre stato essenziale”.
Qualcuno – ben lontano dagli anni delle sperimentazioni – gli aveva perfino rimproverato di aver rotto con i classici schemi di composizione. Insomma, Toppi avrebbe rinnegato il concept della vignetta. “Sì, ma non sono stato il solo. Del resto, l’impostazione classica di una tavola divisa in vignette è piuttosto severa. Mi dica lei: come si fa a rappresentare nello stesso spazio sia un dito che suona il campanello sia la battaglia delle Ardenne? Ritengo sia impossibile”. Nel suo lavoro ha dato priorità alla materia e al segno. Riuscendo perfino a costruirsi uno stile unico, personale, facilmente identificabile per dettagli, composizione, espressività. “Mi è sempre piaciuto esplorare ogni direzione possibile. Non mi sono mai legato a un personaggio perché ho sempre guardato orizzonti lontani. Lo stile ‘toppiano’? Che brutta parola… sembra un’offesa. Quello è il prodotto di una vita. Ho portato avanti una severa autocritica, ho lavorato continuamente su me stesso, modificando ogni volta qualcosa. Quel tanto che era sufficiente a migliorare un po’. Questo mio stile è comunque il frutto di una grande fatica”.
Appena due anni fa, nell’ottobre 2010, Toppi arrivò al Museo del fumetto di Lucca per presentare il suo testamento artistico: Sulle rotte dell’immaginario, la collana di dodici volumi che raccoglievano la quasi totalità del suo lavoro. A realizzare quest’opera omnia sono state le edizioni San Paolo con Il Giornalino – con cui ha collaborato per oltre un trentennio – e il Muf. “Di fronte a una raccolta di queste dimensioni, lo ammetto, mi fa molto piacere”, ci disse Toppi. “Non è una cosa che capita tutti i giorni”. Lo sa bene Angelo Nencetti, direttore del museo. Uno che ha fortemente voluto questa operazione e che da tempo aveva stretto un forte e inscindibile legame con Sergio Toppi. Insieme stavano infatti lavorando a una storia che sarebbe dovuta uscire sulla rivista Focus. Non si conoscono i dettagli. Quel che è certo è che le illustrazioni erano quasi completate. E che la storia era molto vicina alla biografia. La prima di Sergio Toppi. E, sempre per la prima volta, su una di queste tavole pare che l’artista milanese si sia autoritratto.
Toppi è morto a Milano, dov’era nato nel 1932, il 21 agosto di quest’anno. Due anni fa, in occasione del lancio della collana, ci disse: “Sono cinquant’anni che disegno. E non ho mai sentito il peso di questo lavoro. No, non ho intenzione di fermarmi. Anche se questo non spetta a me dirlo. Però lo spero. Spero davvero di non fermarmi mai. Penso infatti di avere ancora qualcosa da dire e da raccontare”.
Gianluca Testa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati