Quadri a fumetti. Intervista a Manuele Fior
È uno dei graphic novelist italiani più amati, noto per i suoi tratti liquidi e malinconici. Residente a Parigi, Manuele Fior ha da poco pubblicato un volume che mescola storia dell’arte e disegno, sullo sfondo del Musée d’Orsay. Oltre a essere protagonista di una grande mostra al Museo di Roma in Trastevere, insieme ai maestri del fumetto italiano. Lo abbiamo intervistato.
Manuele Fior (Cesena, 1975) vive a Parigi. È un autore amatissimo sia in Francia che in Italia, dove è pubblicato da Coconino Press (costola autonoma di Fandango), casa editrice dedicata al romanzo a fumetti, fondata a inizio millennio da Igort, altro nome cult. È un linguaggio, quello della graphic novel, che esce dal confine del fumetto per entrare nel territorio più vasto della letteratura per immagini. E che attinge a un bacino di lettori non necessariamente fumetto-addicted.
Il libro più recente di Manuele è Le variazioni d’Orsay. Ambientato nell’omonimo museo, è una storia corale che si svolge in tempi e spazi differenti, sorretta da un registro narrativo dai toni lievi ma anche sofferti. Un viaggio nella vita e nelle opere del gruppo di artisti francesi che fece tremare la percezione visiva sino a quel momento dominante, aprendo lo sguardo alla contemporaneità del segno, del colore e del gesto.
Qual è la genesi de Le variazioni d’Orsay?
È stato lo stesso d’Orsay a invitarmi a scrivere un libro ambientato nel museo. Per cui mi sono occupato di cose che amavo, ma con occhi nuovi. Ad esempio l’Art Nouveau: riprenderla ha sicuramente influenzato la linea e il disegno verso una certa direzione. Mi sono reso conto che quel periodo della pittura francese è stato un laboratorio del disegno. Un momento cruciale in cui è avvenuta la transizione dalla grafica alla nascita di un linguaggio nuovo, il fumetto. Che nasce però in America nello stesso periodo, nei primi anni del Novecento, e ne riprende la linea: persino l’impaginazione sembra un grande portale Art Nouveau. Non a caso, perché quella linea è una specie di pittura essiccata. Si pensi a Tolouse-Lautrec che passa dalla pittura alla grafica, ai poster, per cui si torna a dei colori piatti, a una facilità nella riproduzione del segno.
Chi sono gli autori a cui ti ispiri?
Nasco con i supereroi americani. Poi mi sono avvicinato agli autori italiani, soprattutto quelli del gruppo Valvoline, fra cui c’erano Igort, Mattotti, Brolli, Carpinteri. Mattotti lo considero un po’ il mio maestro. Ho cominciato a fare fumetto cercando di mettermi nella sua scia. Una scuola meno autoreferenziale rispetto alla grafica del fumetto, che cerca di inserire nella sua riflessione gli esiti della pittura del Novecento, aprendo le porte all’Espressionismo tedesco, ma anche a pittori come Félix Vallotton. Sono cresciuto leggendo anche i fumetti giapponesi, come Akira, di Katsuhiro Hotomo.
In verità all’inizio ho avuto due o tre mostri sacri sui quali ho costruito il mio alfabeto grafico. Adesso è diverso, guardo a molte più cose, per fortuna non ho la stessa idolatria verso un solo artista, ma ne apprezzo tanti. Continuo ad avere un occhio di riguardo per i giapponesi, ma seguo diversi americani e italiani. In Italia, in particolare, il fumetto staziona in una nicchia abbastanza piccola, però gli autori sono molto combattivi.
Le variazioni d’Orsay gioca sulla asincronicità. Le vicende della Gare de Paris risuonano nelle prime pagine. E poi la narrazione è un salto continuo tra il presente nel Museo d’Orsay e le vicende dei pittori le cui opere sono ospitate al suo interno.
Quando ho iniziato a lavorare a Le variazioni mi sono reso conto che non avrei potuto fare una storia tradizionale, perché c’erano tantissime suggestioni visive. Al d’Orsay, in quarant’anni di pittura si concentra tutta la modernità: dalla scuola ottocentesca francese più classica ai primi virgulti, i primi impressionisti che scalciano, e poi ci sono i Naives, i simbolisti. È una specie di caleidoscopio.
Normalmente quello che mi guida nella creazione di un libro è proprio il principio del piacere, e a quello si accodano le altre riflessioni. Voglio fare ciò che amo subito, anche senza un filo logico ben preciso. Ho deciso così di usare una struttura di storie incapsulate, simile a quella delle Mille e una notte, che mi potesse aprire più porte, e all’occorrenza permettere di entrare e uscire, senza creare una classica trama.
Le pantere, i sotterranei, simbolicamente la dimensione inconscia del museo rappresentata dalla guardiana che, da indifferente e inconsapevole spettatrice rispetto alla bellezza che la circonda, diviene in sogno il narratore onnisciente, una sorta di sfinge-sibilla.
Sì, la guardiana è una sacerdotessa. Non ho mai pensato alle sale tecniche del museo come all’inconscio, però è una bella immagine, perché l’impressione è un po’ quella di addentrarsi in una piccola città in cui soltanto una parte è visibile.
Ciò che racconta la guardiana risponde alla pura realtà: al d’Orsay ci sono dei controller che fanno scattare degli allarmi se avvengono sbalzi di temperatura e umidità. Nel fumetto non l’ho inserito, ma ho visitato pure il tetto. Su cui c’è una struttura che deve sorreggere tutta la grande volta, una specie di cattedrale. E poi da non crederci, ci sono pure le arnie per le api.
C’è un altro aspetto che fai emergere, e riguarda le vite degli artisti. A volte verità così dolorose e scomode da essere adombrate dalla gloria postuma.
Questa è una riflessione che ho fatto visitando gli archivi, dove ho visto molte opere custodite come se fossero reliquie. Ormai la tecnologia è così evoluta da dare l’impressione di poter preservare un’opera all’infinito. In questo senso la conservazione diventa davvero un feticcio, che fa immancabilmente perdere di vista il fatto di trovarsi di fronte a colpi di pennello su pezzi di tela. E bisogna tenerlo ben presente nel giudicare un’opera, per essere liberi di dire che ci sono quadri più o meno riusciti, ad esempio. Monet ha dipinto diversi treni che arrivano alla stazione di Saint Lazare, ma non tutti sono dei capolavori.
A me non interessa la quotazione o il valore di un’opera, ma l’importanza che può avere nel processo di apprendimento e di evoluzione dell’individuo. E sulla bellezza è immancabile ci sia un equivoco, intendo il fatto che si possa darle un prezzo. L’altro giorno mi è capitato di vedere un video su Antonio Ligabue, girato in una osteria. Una donna gli chiede un disegno. E lui in cambio vuole un bacio. Lei accetta, ma prima di dargli il bacio vuole il disegno. Lui fa un disegno incredibile, un cane di una bellezza commovente. Ma lei non vuole comunque dargli il bacio. E allora viene da chiedersi, quanto vale quel disegno? Per lui un bacio, lo ha fatto semplicemente per un bacio. Una sorta di baratto per qualcosa di estremamente umano. È chiaro che c’è il mercato dell’arte come di tutto, ma se risali all’origine il terreno è completamente friabile. Quanto costa un bacio?
Ti è capitato di disegnare delle tavole dentro il museo?
No. Quando andavo a visitare il museo andavo in giro liberamente, schizzando magari due-tre appunti per fermare le idee. Le tavole devo produrle nel mio posto, devo avere quelle matite, quel taglierino, non mi sento a mio agio a disegnare in giro.
Mi parli del tuo processo creativo, tecnico e di produzione?
Non stabilisco uno storyboard per i miei libri, quando inizio non so bene dove andrò, cosa succederà…
Infatti i tuoi libri somigliano molto alla vita, non sono storie canoniche. Le cose non succedono come nelle trame strutturate dei film, ma seguono piuttosto i percorsi sfaldati dell’esistenza.
Sono organismi semi-viventi, i libri. Nel senso che, anche se non sono autobiografici, si aggiornano in continuazione e subiscono l’influenza di ciò che sto vivendo. Per questo, appunto, non predispongo uno storyboard.
Quello che cerco di fare è partire con un serbatoio di documentazione e con una scorta di emozione. Le emozioni legate a ciò che dovrà succedere devono essere molto forti, mi dovranno accompagnare per diverso tempo. E quando questa nuvola è abbastanza densa inizio a disegnare, e tutto ciò avviene abbastanza spontaneamente. È chiaro che un po’ di struttura devi predisporla, ma come arrivarci non lo so e mi riservo ogni mattina la sorpresa di scoprirlo davanti al foglio bianco.
Quali storie ti piace raccontare?
In generale non mi concentro quasi mai sul presente, racconto il passato o il futuro. Anche se in verità l’unica cosa che mi interessa è il presente. Ma raccontarlo è difficile, è un problema della narrazione contemporanea. I filtri temporali servono a far risaltare alcuni aspetti peculiari del presente, che magari si hanno sotto il naso e a cui non si fa attenzione.
Per esempio ne L’intervista (2013), a parte due tre cose di fantascienza, si parla di argomenti contemporanei, ma che risaltano di più se visti con gli occhi di una ragazzina del 2048. La signorina Else (2009) è la stessa cosa, mi è piaciuto molto documentarmi sui costumi dell’epoca, la Vienna della Secessione.
Spesso viri i colori in maniera innaturale, e in questo vedo una cifra iper–contemporanea. Come se usassi una palette digitale.
In fumetti molto tradizionali si può astrarre anche una sola vignetta, isolandola dal contesto. Mi capita ad esempio di vedere alle mostre delle tavole di Crepax, in cui l’immagine e il testo si reggono da soli, al di là della storia in cui sono inclusi. Mi piace lavorare così sulle mie. Il testo deve essere forte e magnetico, come se si pescasse un frammento di sonetto: evocativo e comunque compiuto.
Nei tuoi libri cambia anche il segno.
Il segno è una sorta di colonna sonora per ogni libro. In Cinquemila km al secondo (2010) la priorità era correre il più veloce possibile, non correggere mai, al limite buttare via. Ero convinto che delle linee ben chiuse avrebbero soffocato la cosa più importante, la freschezza del disegno. Se avessi disegnato Else così, sarebbe sembrata un’isterica: Else invece aveva bisogno di una linea serpentina, che la avvolgesse e stritolasse.
Per te è importante essere autore dei testi?
Per me è essenziale. Mi piace riadattare, come ho fatto con Schnitzler. Nella mia carriera ho cercato di diventare un disegnatore di fumetti, e per vicissitudini varie ho iniziato a scrivere delle piccole storie, poi ci ho preso gusto. Sino ad arrivare al punto che disegnare la storia di un altro non mi interesserebbe.
C’è un peso, una distribuzione di equilibri tra testo e immagine?
Sento che ogni tanto il disegno assume un ruolo preponderante e detta la storia. A volte invece le idee partono dalla scrittura, o da una situazione che appartiene alla vita. È una specie di magma indistinto.
Sei autore della copertina di Linus uscita all’indomani della strage del Bataclan.
Sarei tentato di non dire niente. Non vorrei aggiungere altre cose. Quell’immagine non è un’opinione, ma un epitaffio.
Mariagrazia Pontorno
Roma // fino al 24 aprile 2016
Fumetto italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnati
a cura di Paolo Barcucci e Silvano Mezzavilla
MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE
Piazza Sant’Egidio 1b
06 0608
[email protected]
www.museodiromaintrastevere.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/51764/fumetto-italiano-cinquantanni-di-romanzi-disegnati/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati