Un fumetto nello slum di Nairobi. Intervista agli autori di “Lamiere”
“Lamiere”, pubblicato da Feltrinelli Comics, è il reportage per immagini di un viaggio in uno dei peggiori slum di Nairobi, in Kenya. Un'esperienza di rabbia e commozione, di cui abbiamo parlato con i tre autori: Danilo Deninotti, Giorgio Fontana e Lucio Ruvidotti.
Lamiere parla di un viaggio al seguito di una ONG nelle zone più degradate di Nairobi. Com’è nata l’idea di questo racconto?
Più o meno due anni fa la nostra amica Eloisa Franchi ci contattò per sapere se fossimo interessati a raccontare a fumetti una delle attività dell’ONG Rainbow for Africa, di cui è ufficio stampa e medico volontario. Per formazione e indole abbiamo sempre avuto un debole per i temi sociali, e il lavoro di Rainbow ci sembrava molto stimolante.
Qualche mese dopo, Tito Faraci ‒ già editor di Topolino per Danilo e Giorgio ‒ assunse la direzione della neonata collana Comics di Feltrinelli e ci chiese se avessimo un’idea per un progetto di graphic journalism. A questo punto le stelle si erano allineate: non restava che decidere quale progetto di Rainbow seguire e documentare.
E la scelta è caduta sulla missione a Deep Sea, lo slum della capitale del Kenya…
Abbiamo scelto Deep Sea perché è una bidonville piccola, particolarmente degradata e fuori da qualsiasi riflettore: non è né Kibera né Korogocho, sempre per limitarsi a Nairobi. La sola ONG che vi opera è Rainbow for Africa. Volevamo capire com’è la vita quotidiana in un contesto simile, di enorme miseria sociale ma anche ‒ come avremmo scoperto, erodendo alcuni nostri preconcetti ‒ di grande resistenza.
Come potreste descrivere Deep Sea?
Abbiamo passato una decina di giorni nella bidonville insieme ai quattro volontari di Rainbow, grazie anche all’impegno di frate Ettore Marangi ‒ che nel fumetto compare come personaggio e in qualche modo guida ispiratrice del nostro lavoro. Per lo più abbiamo chiacchierato con gli abitanti di Deep Sea. Abbiamo conosciuto persone di ogni genere: un costruttore di baracche, un profugo ugandese che campa coltivando un orticello, una barista, molte famiglie, soprattutto molte donne di grande carisma. Ci hanno colpito fin da subito le terribili condizioni igieniche, lo stato di segregazione imposta e l’enorme difficoltà di venire a capo di una simile privazione materiale.
Siete in tre, di cui due sceneggiatori (Danilo e Giorgio) e un disegnatore (Lucio). Come vi siete divisi i compiti e come sono nate le tavole in termini di gestione del lavoro?
La divisione del lavoro è avvenuta in modo abbastanza tradizionale: Danilo e Giorgio hanno scritto una sceneggiatura precisa e dettagliata, c’è stata una fase di confronto rivedendo insieme lo storyboard abbozzato da Lucio, che poi ha disegnato tutto in una volta il libro.
Di fatto, però, si tratta davvero di un lavoro collettivo. Andare a Nairobi è stata un’esperienza totalizzante che abbiamo vissuto assieme. Abbiamo affrontato ogni giornata confrontandoci in diretta, con fiducia reciproca e senso critico, su quello che ci stava capitando, cambiando il nostro metodo di approccio durante le interviste o discutendo delle emozioni e delle riflessioni suscitate dal contesto. Ogni sera fino a tarda ora ci trovavamo a metabolizzare la giornata e iniziare a elaborare idee e struttura del reportage. E questo approccio è continuato nella fase di realizzazione effettiva.
In che modo?
Per fare un esempio, Lucio ha ricevuto da Giorgio e Danilo una sceneggiatura completa, ma ha avuto una grande libertà di interpretare la narrazione sul lato grafico, cambiando inquadrature, modificando la gabbia o usando un colore non decorativo, che suggerisce al lettore passaggi logici e punti di vista. Gli ultimi tre giorni prima della consegna abbiamo lavorato giorno e notte, Lucio ai disegni e Danilo e Giorgio a fare da assistenti!
Non è la prima volta che collaborate. Già tra il 2016 e il 2017 avevate pubblicato alcuni brevi reportage illustrati su pagina99; in quel caso i fumetti parlavano di spazi abbandonati, case sfitte e speculazione edilizia a Milano; della situazione dei senzatetto; di un borgo nel cuneese rivitalizzato dal lavoro di un gruppo di donne. Che tipo di investimento è stato, anche e soprattutto in termini emozionali, ritrovarvi insieme in Africa?
È stata probabilmente l’esperienza più tosta che abbiamo vissuto come collettivo di lavoro. I brevi reportage precedenti – soprattutto quello sui senzatetto – ci sono serviti come allenamento emotivo e per sviluppare una modalità di relazione che ci permettesse di condividere pensieri e riflessioni a caldo, senza filtri. La nostra capacità di fornirci, l’un l’altro e come trio, sostegno psicologico libero e immediato è stata cruciale una volta immersi nella realtà di Deep Sea.
In quei giorni abbiamo vissuto sulla nostra pelle sentimenti e situazioni contrastanti. Passavamo, a volte in una manciata di minuti e in modo radicale, da attimi drammatici a sprazzi di gioia. Da foschi pensieri sull’impossibilità di un vero cambiamento a situazioni di condivisione – di un pasto come di un’idea, o di un risultato raggiunto – che aprivano squarci di speranza.
Il ritorno è stato il momento più duro: l’esperienza si è trasformata in rabbia; ci siamo sentiti distanti, quasi alienati rispetto a quanto abbiamo ritrovato qui. Lavorare al fumetto ci ha però permesso di intraprendere un percorso di elaborazione e ragionamento sul senso del nostro lavoro e vivere e agire quotidiano.
Nel libro c’è un passaggio in cui dite: “Così come i volontari di Rainbow provvedono a determinati bisogni primari, noi vorremmo provvedere al bisogno narrativo”. Che efficacia può avere il giornalismo per immagini, in queste situazioni?
Bisogna sempre fare grande attenzione quando si maneggiano le immagini, soprattutto in un momento dove è fin troppo facile usarle per fini retorici o propagandistici, magari privandole di un contesto. Ad esempio: sono anni che ci vengono messe davanti fotografie sempre più dolorose dei migranti ‒ ma cosa è cambiato davvero nella coscienza collettiva?
È vero che il fumetto ha una sua specificità; è immagine ripensata e disegnata. Ma il punto non cambia, e queste riflessioni ci hanno accompagnato per tutta la durata del viaggio e ben oltre. Quando scriviamo la frase che riporti, crediamo senz’altro di adempiere a un compito: raccontare la storia di persone che altrimenti cadrebbe nell’oblio. Ma una volta finito il reportage noi siamo tornati a casa e loro sono rimasti lì. Questo stacco dovrebbe essere interrogato con una certa radicalità. Raccontare è sufficiente? Non è comunque un lavoro parziale, una forma di auto-assoluzione, se a questo racconto non segue un impegno concreto?
Molti di questi dubbi non li abbiamo ancora sciolti, ma sono riflessi nell’impostazione volutamente non-pietistica del fumetto.
Quanto può essere più efficace un’immagine disegnata rispetto a uno scatto?
Oggi le persone sono abituate a una fruizione massiccia della fotografia senza però avere una buona educazione alla lettura dell’immagine. Il disegno propone qualcosa di essenzialmente diverso. Già nella sua realizzazione disegnare è un’azione conoscitiva, un’interpretazione del reale forte, che riporta al fruitore il punto di vista del disegnatore, con la sua specifica sintesi. La narrazione sequenziale, poi, non è economica: c’è bisogno di molte pagine per raccontare una storia, bisogna selezionare le informazioni, gli avvenimenti e poi scegliere accuratamente le immagini. Questo processo richiede un tempo e un esercizio che ti obbliga a riflettere e proporre un discorso più generale con uno specifico taglio: non si può avere la pretesa di dare un’istantanea di quello che si è visto. In un fumetto è l’autore a scegliere il punto di vista e soprattutto il ritmo della narrazione.
A fronte di questo spesso chi legge Lamiere rimane scosso da emozioni forti, soprattutto alla prima lettura. Evidentemente anche un fumetto, con un disegno poco naturalistico come il nostro, può produrre immagini di forte impatto emotivo. E questo ci stupisce sempre, perché, dopo aver vissuto di persona quello che raccontiamo e averlo faticosamente rielaborato, ci siamo forse un po’ anestetizzati.
Eppure c’è una parte del racconto in cui vi lasciate andare ai dubbi, e li confessate apertamente: “Non basta raccontare per essere assolti”. Qual è il passo successivo al racconto, per un giornalista/fumettista in una situazione simile?
L’azione. Non è perché ci siamo fatti carico di un racconto che abbiamo esaurito il nostro compito. Così come il lettore non può sentirsi assolto una volta ricevuta l’informazione. Serve un passo ulteriore. Un impegno reale e quotidiano, non necessariamente enorme. Non cambiare marciapiede e rivolgere una parola a chi è in difficoltà, per esempio.
Per quanto ci riguarda, al di là del volontariato o di azioni dirette per combattere la diseguaglianza sociale, vorremmo continuare a stimolare una riflessione sull’empatia e – nel caso specifico delle baraccopoli – sulla necessità di fornire aiuti non assistenziali.
C’è qualche storia in particolare che vi portate dentro da questo viaggio?
Ovviamente, le storie che abbiamo raccontato non si esauriscono con il libro. Ed è il loro proseguimento, con tutto il carico di tragedia e speranza, che continuiamo a vivere, sebbene a distanza. Qualche esempio. Margaret – una delle nostre accompagnatrici – ha perso tutto in un recente incendio che ha devastato una parte di Deep Sea. Le baracche sono però state prontamente ricostruite anche grazie ad alcune donazioni e lei ora ha nuovamente una casa. Uno dei primi ragazzini fatti di colla che incontriamo nel fumetto, Nelson, nonostante gli sforzi di frate Ettore non ce l’ha fatta ed è stato trovato senza vita. Infine, Josphat, un ex vagabondo fuggito dal riformatorio, il più grande dei bambini di Deep Sea che frequentano la scuola di Valley Crest, ha superato gli ultimi esami in modo talmente brillante da risultare il secondo miglior studente di tutto il Kenya.
Siete soddisfatti del lavoro?
La soddisfazione maggiore è quella del riscontro da parte dei lettori: chi legge rimane colpito dalla tematica, da come è raccontata, e vuole saperne di più. Per noi questo è molto importante perché era il nostro obiettivo primario. A questo proposito, dopo le prime settimane dall’uscita del libro, ci chiediamo spesso come fare in modo che lo leggano in molti, perché tanto è positivo il riscontro dopo la lettura, tanto è piccolo il numero di lettori, di fumetto e non, che è portato ad avvicinarsi a un tema che non fa cronaca, per quanto estremamente attuale.
Sul piano formale, salvo la normale voglia di migliorarsi, siamo contenti. Il libro ci rappresenta: è serio ma un po’ folle, ci ha fatto crescere e permesso di dare il nostro contributo al fumetto e al giornalismo esattamente nel modo che volevamo.
‒ Alex Urso
Danilo Deninotti, Giorgio Fontana, Lucio Ruvidotti – Lamiere
Feltrinelli Editore, Milano 2019
Pagg. 144, € 16
ISBN 9788807550201
www.feltrinellieditore.it
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