Come a ogni numero, anche questa volta il nostro magazine ha ospitato un nome tra i più apprezzati del nuovo fumetto italiano. In questa uscita è toccato al giovanissimo Lorenzo Mò (Mondovì, 1988), in libreria col suo esordio Dogmadrome. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa in più sul libro, sulla sua ricerca, e per strappargli un fumetto inedito ‒ pubblicato sul numero 49 di Artribune Magazine.
Cosa significa per te essere fumettista?
Significa avere sempre qualcosa da raccontare, un qualcosa che è talmente vivido dentro di te che il testo da solo non basta.
Sei una delle nuove perle del fumetto italiano. Da dove spunti fuori?
Ho cominciato a pubblicare alcune illustrazioni e storie brevi su Tumblr e Facebook, e questa cosa mi ha permesso di interagire e misurarmi con altri bravi autori. Dopo questa prima fase ho avuto la fortuna di prendere parte a realtà editoriali indipendenti, come LÖKZINE, Lucha Libre, B Comics, Canemarcio, Sciame, Prismo e Linus.
Il tuo fumetto d’esordio è da poco in libreria. Di cosa parla?
Dogmadrome è un racconto ambientato all’interno di un gioco di ruolo chiamato Struggle Runner, dove si muovono Edo, Fede, Gianni e Paro, rispettivamente il folletto, il guerriero, lo stregone e il master (colui che tiene le redini del gioco e che, come una divinità, può avere potere decisionale all’interno del match). Il tutto si apre come una normale sessione, ma pian piano la partita prende una piega sinistra con la quale i nostri protagonisti dovranno fare i conti.
Il libro è una dichiarazione d’amore per i giochi di ruolo…
Dogmadrome nasce dalla necessità di raccontare un periodo della mia vita, dove durante i fine settimana ci si sedeva attorno a un tavolo con degli amici e si stava delle ore a giocare a Dungeons & Drangons (e poco più in là con il tempo ad altri giochi con regole tutte nostre). EÃ un periodo che ricordo con molta dolcezza perché la nostra compagnia era affiatatissima, fatta di un’amicizia solida. La cosa interessante, però, è il tipo di svago che questo genere di passatempo offre; non si tratta soltanto di un modo come un altro per evadere ‒ come si può fare guardando un film, o leggendo fumetti e libri: il gioco di ruolo secondo me è la quintessenza dell’evasione, perché si tratta di un’esperienza condivisa.
In che senso?
Diversamente dai videogame, all’interno di un gioco di ruolo vengono fuori la personalità e il vero carattere di chi ne prende parte, e lì come da slogan: l’unico limite è la fantasia.
L’idea di base era quella di costruire una storia fantasy con dei personaggi che ragionavano come delle persone reali, e più in particolare come dei ragazzini all’interno di un mondo completamente diverso dal nostro; il tutto immaginando come sarebbe se un amico della tua compagnia rivestisse una sorta di ruolo divino.
Nel libro una voce esterna – quella del master – detta le regole del gioco costruendo il canovaccio della storia di volta in volta. Per questo la narrazione sembra la vera protagonista del lavoro, una forza esterna che si costruisce da sola e si impone su tutti – anche sull’autore.
La narrazione è la vera protagonista della storia, proprio perché all’interno dei giochi di ruolo il vero protagonista è il master: è lui che, come uno scrittore, costruisce e orchestra il mondo all’interno del quale si ambientano le storie dove si muovono i personaggi. In Dogmadrome, quindi, il master assume da un lato la posizione di voce narrante rappresentata graficamente da una didascalia; e dall’altro si trasforma in un vero e proprio personaggio, entrando prepotentemente nella storia interagendo con i nostri eroi.
Dogmadrome ha richiesto oltre due anni di lavoro. Mi parli della sua gestazione? Hai pianificato tutto a priori o ti sei lasciato guidare dalla storia?
Dogmadrome ha avuto una gestazione molto lunga: ho cominciato a scriverne alcune parti nel gennaio 2015, poi ci sono stati altri progettini e lavori vari che mi hanno tenuto occupato. Nell’estate dello stesso anno, forte del fatto che avessi già pubblicato sul volume antologico Novel (edito da Eris Edizioni insieme ad Albertina Press), ho proposto l’idea alla mitica e ormai leggendaria Eris Edizioni. Così, di buona lena, ho rimesso le mani alla storia nel 2016 scrivendo una sceneggiatura e poi uno storyboard dettagliatissimo.
In fase di scrittura ho buttato giù il tutto abbastanza di getto in maniera molto lineare, lasciando sempre l’attenzione del lettore sui personaggi, proprio come in una normale sessione di Dungeons & Dragons. Dopo questa fase molto grezza, sono passato alla levigatura e a ragionare sulle regole del gioco punto per punto. Questa è stata la parte più complessa, ma anche la più divertente, soprattutto quando la storia ha cominciato a prendere una piega più drammatica.
Nonostante si tratti del tuo primo libro, il disegno ha già qualcosa di molto personale: stile estremamente grafico, colore sporco, uso minuzioso dei chiaroscuri e delle ombre. Che aspetto volevi dare alla storia in questo senso?
Lo stile che ho usato è quello che fino al momento della stesura del libro avevo maturato. Alla storia volevo dare un aspetto sincero: cercare di dare il massimo attraverso il mio modo di disegnare e colorare.
Nel frattempo volevo che il mio stile pop e colorato potesse creare un cortocircuito e un contrasto con il genere che andavo ad affrontare.
Il tratto invece è cartoonesco, quello di chi è cresciuto con le animazioni della Walt Disney e Warner Bros. Puoi dirmi qualcosa sulla tua formazione?
Prima di tutto quando si disegna si deve fare i conti con tutto quello che ti ha influenzato, specialmente durante l’infanzia; e credo che tu abbia centrato il punto di partenza. Come tutti quelli che fanno fumetti, anch’io sono stato (e sono tuttora) un avido fruitore di cartoni animati, dal momento che guardare cartoni è il primo approccio vero che si ha nei confronti del disegno. Tutta la produzione Disney è forse la primissima cosa con la quale sono venuto in contatto, perché quel tipo di animazione e quel tipo di character design rappresentano una sorta di specie dominante nel settore.
Quando penso alla Walt Disney mi vengono in mente, tra quelli che mi hanno influenzato di più, animatori del calibro di Ward Kimball, Milt Kahl, e anche fumettisti come Floyd Gottfredson. Ma, come dicevi giustamente tu, anche la controparte più demenziale fatta dai cartoni di Tex Avery, Robert McKimson, Bob Clampett e Chuck Jones. Ovviamente non esistono solo loro, per la mia forma mentis sono state importantissime le prime stagioni dei Simpson; e tra gli autori che più mi hanno segnato e che sono stati essenziali per quello che sono ora, aggiungerei Jack Kirby, Akira Toriyama, Benito Jacovitti, molto dell’underground americano, italiano e francese e gran parte della produzione dello Studio Ghibli.
Un esordio vincente ha bisogno di una squadra vincente: com’è stato lavorare con una bella realtà editoriale come Eris Edizioni?
Avere a che fare con loro credo sia il massimo che un autore possa volere dai propri editori. Quello che di Eris mi piace sono le loro intuizioni, il loro criterio nello scegliere gli autori, di comprendere la qualità delle storie, e quindi i loro punti deboli e i loro punti di forza, ma anche la loro capacità di vedere da angolazioni diverse i progetti che vengono proposti. A tutto questo aggiungo la loro grande abilità nel mettere alla prova determinate scelte che gli autori fanno in merito a stili, composizioni e idee.
In Inghilterra dicono che il secondo album sia sempre il più difficile. Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
Qualcosa bolle in pentola, ma per ora non posso dire troppe cose perché ho molte idee alle quali devo dare un ordine.
‒ Alex Urso
Versione estesa dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #49
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