Lo scorso 23 agosto è scomparso Massimo Mattioli, fumettista tra i più influenti al mondo. Fondatore della storica rivista Cannibale nel 1977, è stato creatore di stili e di storie, a partire dalle mitiche avventure di Pinky sulle pagine de Il Giornalino. Un artista “pop” nella misura più completa del termine, capace di sabotare i linguaggi del disegno, innescando una vera e propria rivoluzione del fumetto nazionale. Dopo averlo salutato, provando a racchiudere gli eventi più significativi della sua immensa carriera, questa volta abbiamo deciso di lasciare spazio a chi con i suoi fumetti ci è cresciuto, a chi ci ha collaborato, a chi si è confrontato con l’uomo e con l’artista. Ecco una serie di dichiarazioni inedite da parte di fumettisti e amici a cui abbiamo chiesto un personale ricordo di Massimo Mattioli.
IL RICORDO DI GIORGIO CARPINTERI
Ho conosciuto Massimo Mattioli nella redazione romana di Frigidaire (‘81/‘82). Prima di allora, avevo incontrato qualche “Massimo”, mai un “Mattioli”. Da quel momento “Massimo Mattioli” è diventato un brand depositato che escludeva l’esistenza di altri “Massimi” o altri “Mattioli”. Quel “brand” lo apprezzavo da poco. Ho letto i suoi fumetti dal Cannibale in poi. Niente Giornalino, niente Pinky, ma era quanto bastava per capire che era uno degli autori più stimolanti in circolazione. Il suo approccio pop/disincantato era la “cosa giusta”. Condividevamo la passione per molti artisti della scena musicale. I Devo erano tra questi. Li considerava i nuovi Beatles… parole sue (e in quel momento mi apparivano sante). La sua casa in via Ostilia (vicino al Colosseo) era piccola. Più che una casa sembrava la tana del GattoGattivo. Era piena zeppa di dischi, libri fighissimi e vhs. Tutti i titoli messi insieme mettevano a fuoco chi avevi di fianco: un irriducibile alieno obliquo che dovevi fronteggiare con attenzione per non uscirne, a suo confronto, un molliccio benpensante. Ogni tanto andavo a trovarlo e mi prendevo una dose di obliquità. Questo è quello che mi mancherà di lui… i suoi “progetti segretissimi”, la sua “gioventù alla Dorian”, il suo sguardo felino, da gatto libero.
(Giorgio Carpinteri, fumettista)
IL RICORDO DI ALESSANDRO LISE
Per anni le stagioni per me sono state autunno, inverno, primavera e Pinky. D’estate passavo mesi da mio cugino che era abbonato a Il Giornalino: conservava tutti i numeri in enormi faldoni grigi al piano terra, insieme alla collezione completa di Tex e diversi Alan Ford. Vorrei poter affermare che Il Giornalino mi piaceva tutto, che era una bella rivista, e probabilmente lo era, ma non lo so, non lo so proprio, perché io leggevo solo Pinky (e al massimo Pon Pon di Luciano Bottaro). Ero, e sono tutt’ora, innamorato pazzo della lucida, serissima, sistematica, implacabile follia cartoonesca di Mattioli, la sua complicatissima semplicità, tanto che credo sia stato il primo autore del quale ho imparato a riconoscere il nome e lo stile. I suoi fumetti sono sempre una sorpresa continua: ogni volta che li rileggi hanno sempre la stessa aura di figaggine della prima volta; non invecchiano, perché arrivano dal futuro per tracciare una rotta gommosa verso una galassia pop.
(Alessandro Lise, fumettista)
IL RICORDO DI MAICOL E MIRCO
Massimo mi ha insegnato che i colori sono narrativi.
Che il nero è un colore.
Che le storie vere sono tutte avventure.
Che nei fumetti si muore solo a beneficio del lettore.
Che la morte non fa ridere, fa sganasciare.
Che gli editori devono essere amici, sennò BANG.
E ora poi ci sarà il suo vero funerale. Lui biondissimo, vestito di bianco, alla guida di un’astronave fucsia. L’equipaggio: un coniglio rosa, un vermetto triste, un uccellaccio avventuriero, un supereroe dal lungo naso, un mago piccolissimo, un topo e due gatti (uno cattivo e uno gattivo). Quindi la colorata astronave funebre sfreccerà nel nulla, disegnandosi dietro un cielo di stelle sghignazzanti. Lasciandoci qui. Ancora un po’.
(Maicol & Mirco, fumettista)
IL RICORDO DI PAOLO BACILIERI
Massimo Mattioli. Non mi ricordo esattamente quando ma mi ricordo cosa: il primo fumetto di MM che ho letto è stato Lo zoo pazzo, di Gomboli e Mattioli, sul bellissimo Corriere dei Ragazzi – poteva essere il 1973, avevo 8 anni. Primo per me, perché MM era già da anni attivo non solo in Italia ma anche in Francia e Inghilterra (i francesi dell’Association si ricordano molto bene di Vermetto Sigh). Poi è arrivato Pinky. Mia madre per assecondare la mia passione divorante, vista la distanza astronomica da qualsivoglia edicola del nostro domicilio veneto, mi regalò per i miei dieci anni un abbonamento al settimanale cattolico Il Giornalino (lei leggeva la rivista di estrema sinistra Famiglia Cristiana). Una delle star de Il Giornalino (che all’epoca di star ne aveva parecchie) era Pinky, il coniglio rosa. Le sue storie erano sempre a colori, piuttosto brevi, a volte di una sola pagina, spesso scombinatissime, sottosopra, sempre divertenti, piene di gag e perfettamente definite. In ogni dettaglio logo, titolo, lettering, onomatopee, rivelavano la mano sicura e il genio cristallino di MM. Poi, pochi anni dopo, arrivò Frigidaire. Erano i primissimi anni Ottanta, ero un adolescente timido e complessato e frequentavo il Liceo Artistico con un’unica idea chiara in testa: diventare fumettista. Quando presi in mano uno dei primi numeri di questa nuova rivista ne rimasi sconvolto, come se mi avessero preso a fortissimi schiaffi. C’era uno dei miei preferiti, Andrea Pazienza, con un gruppo di altri grandi autori al loro meglio, e c’era Massimo Mattioli. Il suo Squeak the Mouse, un Tex Avery impazzito contaminato da ultraviolenza, horror, pornografia e il successivo Joe Galaxy (fantascienza e noir presi per il culo da dentro) erano paradossalmente la cosa più semplice e riconoscibile di MM; ma su “Frigo” il nostro faceva molte altre cose dove dimostrava la sua incredibile grandezza “mimetica”. Una storia mi colpì particolarmente: Il caso Joy Division, dove a mo’ di vignettona d’apertura compariva non un disegno ma una riproduzione fotografica in bianco e nero dell’Orfeo la (bellissima e tragica) scultura di Canova. Poi, sul finire degli anni Ottanta, inizio dei Novanta, lo ritrovai su rivistone come Corto Maltese o Comic Art – dove facevo i miei faticosi esordi – con le sue b-stories, brevi, fulminanti composizioni vignetta-didascalia di glaciale e geniale perfezione pinkiana. Questo lungo e articolato elenco vi dovrebbe far capire l’influenza che ha avuto da sempre il lavoro di MM su di me, e che potrei sintetizzare in una frase di questo genere: “Non conta quanto sei bravo, conta cosa ne fai della tua bravura“. L’ho incontrato nel corso degli anni alcune volte: era senz’altro un romano atipico, taciturno, riservato, dall’aria “sempre giovane”, giubbotto e jeans. Era molto educato, gentile, coltissimo (aveva letto, visto, ascoltato tutto), ricordo l’ultima volta che ho cenato con lui in una Lucca di fine anni Novanta: mi parlò con passione dei romanzi di James Hadley Chase. Poi è sparito e credo di sapere perché: MM rappresenta, a dispetto dei severi limiti editoriali, culturali ed economici, quanto di meglio la sua fantastica e generosa generazione di fumettisti europei abbia prodotto; questi geni facevano cose incredibili, e lui era, tra gli autori suoi contemporanei, un vero assoluto fuoriclasse, un Campione del Mondo, avanti di almeno 20 anni. Credo ne fosse consapevole, ma nonostante questo sentiva di appartenere a quel sistema “fumetto”, e di conseguenza estraneo all’attuale “Era del (semplifico, ok?) graphic novel”. In ogni caso, grazie di tutto, Campione.
(Paolo Bacilieri, fumettista)
IL RICORDO DI ELETTRA STAMBOULIS
Nell’era post-elettronica era comparso Joe. Aveva scelto la vita tranquilla dopo il caos. Amava fare cose inutili e poco fantaeroiche, come stare seminudo con la pancia in vista sotto l’ombrellone e bere Coca Cola ghiacciata. Ho sempre pensato che Joe Galaxy fosse un po’ l’alter ego di Mattioli. Riservato, dall’aspetto immortale (quando ho visto l’età ho pensato: ma davvero? Gli davo trent’anni di meno), capace di fare con disinvoltura le cose più diverse in modo sempre sperimentale e nuovo, con nonchalance. Se n’era accorta anche Francesca Alinovi che parlava di “capolavoro ad incastro di scatole cinesi”, di tecnica che ribaltava Lichtenstein “esibendo gli splendori della pura tecnica tipografica”, “di Matisse rifatti da Wesselmann”. Era un’epoca così, in cui la critica d’arte più all’avanguardia scriveva testi raffinatissimi e coltissimi, senza la paura di saltare fossi che ancora ci sono, senza la necessità di giustificare alcunché. Il fumetto come pura arte. Se devo dire che cosa è stato per me Mattioli, e non solo lui, tutti loro, direi proprio questo: la Alinovi che scrive di loro, che li legge con l’attenzione filologica della critica di razza. Perché quello è stato il campo di Mattioli, pura arte.
(Elettra Stamboulis, sceneggiatrice)
RAFFAELE DE FAZIO
La nostra collaborazione col compianto Massimo Mattioli iniziò circa tre anni fa per il volume ’77 Anno Cannibale, che celebrava il quarantennale della rivoluzionaria rivista da lui fondata con Stefano Tamburini, e che vide sbocciare i talenti di Andrea Pazienza, Tanino Liberatore e Filippo Scozzari. Iniziò da lì un corteggiamento che ci avrebbe poi portato a pubblicare la raccolta delle sue storie uscite su Cannibale e Frigidaire, che Massimo decise di intitolare Bazooly Gazooly. Non è stato semplice riuscire ad accontentarlo in tutte le sue richieste: aveva un’idea precisissima di come voleva che uscisse il volume, dal formato al sommario fino addirittura ai codici Pantone dei colori che voleva fossero usati nella copertina, negli interni e nella straniante prefazione “muta” che aveva deciso dovesse aprire il volume; ma alla fine ci siamo riusciti, e mi ha manifestato la sua soddisfazione per il nostro lavoro. Ma come si risponde a un genio del fumetto che ti dice “Grazie!”? Nell’unico modo possibile: “Grazie a te Massimo, se non avessi pubblicato tanta genialità forse non saremmo qui!”. Tra gli artisti di quegli anni è stato forse il più schivo: non gli piaceva apparire, aveva deciso che le sue opere dovessero parlare per lui e lo facevano pienamente, sia che fossero animali antropomorfi che si divertivano a sbudellarsi a vicenda, eroi spaziali improbabili o l’amatissimo coniglio giornalista che per più di quarant’anni è stata la sua creatura più amata. Lui non aveva bisogno di ribalta mediatica, la sua era un’assenza giustificata, la sua arte parlava per lui, e fortunatamente la recente infornata di raccolte da lui fortemente voluta ci garantisce che la sua voce si sentirà ancora. E meno male, ce n’era bisogno.
(Raffaele De Fazio, curatore editoriale per Comicon Edizioni)
-Alex Urso
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