Maurizio Lacavalla. Parla il David Lynch del fumetto italiano

Il suo è un disegno intrigante ed ermetico, fatto di zone d'ombra e spazi vuoti (che non vogliono essere riempiti). Stiamo parlando di Maurizio Lacavalla, talento del fumetto noir italiano. Lo abbiamo invitato come ospite su Artribune Magazine #65-66. Ecco cosa ne è venuto fuori

Ok, il titolo la spara grossa, ma c’è indubbiamente del vero! Maurizio Lacavalla è stato capace di ritagliarsi nel giro di pochi anni un’identità ben precisa all’interno della scena nazionale. I suoi fumetti sono un omaggio all’ignoto: nei suoi libri le storie vivono in funzione di ciò che non è scritto, e il disegno trova la sua essenza nelle storpiature e nelle irregolarità. Lo abbiamo incontrato, curiosi di sapere qualcosa in più su di lui e su cosa gli interessa raccontare.

Cosa vuol dire per te essere fumettista?
Compromettermi: ossia rendermi scomodo con ogni nero che stendo, ma anche trovare il compromesso che non avevo messo in conto tra quel che non può scrivere un disegno e quel che non può disegnare una didascalia. Disciplinarmi: alla pratica quotidiana, alla ripetizione estenuante, alla noia. Convivere: con grigi che ammortizzano e colori che saturano troppo. Per riassumere i miei intenti: rimediare. A tutti quei disegni che un giorno ho sbagliato e che ogni giorno cerco di rifare.

Sei uno degli autori più interessanti del fumetto italiano. Mi aiuti a presentarti a chi non ti conosce?
Nasco a Barletta nel 1992; la fuga a Bologna risale al 2011 per studiare all’Accademia di Belle Arti. La sperimentazione di quei primi anni è stata rumorosa e a tratti confusa: gesso, cemento, plexiglass e trapano. Ho deciso di lasciare tutta la polvere nelle aule dell’accademia e sono partito per Amburgo con solo carta e china. Ho stretto più di un nodo con il paesaggio di quel luogo, rigido e fluido senza contraddizione. Amburgo mi ha insegnato a scegliere: tra quello che dai laboratori di incisione bolognesi potevo conservare e quello di cui mi sarei dovuto disfare. Dopo il soggiorno tedesco sono arrivati Sciame (il collettivo fondato con Simone Pace e Kevin Scauri, e gestito insieme a Lele Sorrentino) e i miei primi due fumetti per Edizioni BD: Due attese e Alfabeto Simenon. Recentemente collaboro con La Stampa. Da quasi due anni mi occupo di mediazione e didattica museale presso il MAMbo, e da tre lavoro come illustratore per libri di scolastica.

© La tavola di Maurizio Lacavalla per Artribune Magazine #66

© La tavola di Maurizio Lacavalla per Artribune Magazine #66

IL FUMETTO NOIR DI MAURIZIO LACAVALLA

I tuoi fumetti sono a tratti indecifrabili, sembrano sfidare il lettore mettendo in discussione certezze e verità. Cosa ti interessa raccontare?
Penso agli ambienti sonori e testuali di Mark Kozelek; agli accordi aperti e pieni di riverbero dell’album Ghosts of the Great Highway dei Sun Kil Moon. Mi interessano i fantasmi. Dei fantasmi mi intriga l’àncora che gettano tra i tempi: sono presenti quando ciò di cui sono fatti è passato. Ma sono lontani dall’ancóra dei ricordi: hanno temperamenti ignoti e imprevisti, futuri. Schizofrenici nel tempo come Billy Pilgrim. Non è la confidenza delle memorie delle cose conosciute, ma l’attesa traballante di una nuova storia. Il ricordo è un’esperienza liminale alla realtà comune, alla nostra. I fantasmi sono fantasie, molto più distanti che di un solo passo oltre la soglia. Hanno vita propria. Le memorie no.

Nelle tue tavole a parlare sono soprattutto i silenzi: poco movimento, molta stasi, e immagini cupe che attraggono e respingono allo stesso tempo.
Se ripenso a quando il mio immaginario ha iniziato a formarsi, ricordo alcuni anni molto belli in compagnia di un caro amico, Alessio. Lui, più grande di me, mi ha introdotto ad alcuni di quelli che oggi sono miei capisaldi: la Socìetas Raffaello Sanzio, Bergman, Bacon, Ciprì e Maresco. Grigi pastosi, primi piani, lingue quasi incompresibili. Figure come statue di sale sulla spiaggia. Figure immobili ma allo stesso tempo attorcigliate in sforzi per liberarsi dalla stasi scultorea. Questa è stata l’educazione dei miei occhi.
A venti anni, poi, mi è stata regalata dai miei genitori la macchina fotografica che uso tutt’oggi, dotata di un solo obiettivo da 50mm fisso. Non l’ho mai cambiato. Guardando attraverso questo ho trovato i campi stretti, anche sui volti, che affollano le mie vignette. L’intrigo per la parzialità viene da lì. Consegnare al lettore anche meno elementi di quelli che avrebbe potuto vedere tenendo un occhio chiuso. Restituirgli però un riflesso della complessità e della molteplicità della scena attraverso ombre arbitrarie e teatrali. Costringere all’immobilità della riflessione in luogo dell’avventura dell’esplorazione. Far dubitare che quello che vede sia tutto, sia vero, sia l’effettivo soggetto. Frustrare il desiderio: l’inquadratura non si allarga, non gira nonostante il lettore non voglia altro. Sabotare, in ogni modo possibile.

Maurizio Lacavalla – Due attese (Edizioni BD, Milano 2019)

Maurizio Lacavalla – Due attese (Edizioni BD, Milano 2019)

FUMETTO E LETTERATURA

Alfabeto Simenon è il tuo ultimo libro (insieme ad Alberto Schiavone), nel quale rappresenti graficamente la vita del creatore di Maigret. Com’è stato confrontarti con un autore tra i più maestosi del Novecento?
Prima che mi venisse proposto il fumetto avevo letto per caso due suoi romanzi “duri” e un Maigret e, anche se poco, era stato sufficiente per intendere: ho riconosciuto subito l’impossibilità di afferrare Simenon, ma il desiderio di immergermi nelle sue nebbie. L’idea dell’alfabeto e della divisione dei capitoli, così come il loro contenuto, è tutta frutto dello studio e delle letture di Alberto.

D’altronde il tuo fumetto ha una fortissima componente letteraria…
Credo che questo aspetto sia sempre pericoloso: può essere tanto funzionale quanto sabotante. Amo inciampare nei punti fermi di frasi tachistoscopiche, ma anche liquefarmi lungo flussi di coscienza alla Roberto Bolaño in Amuleto. La trama che cede il primo piano all’evocazione e al semplice – mai semplice – trasporto iconografico (che poi spesso nel mio lavoro è iconoclasta). In Alfabeto Simenon, per esempio, ho potuto alternare un linguaggio più fumettistico a uno più illustrativo, creando grandi tavole accompagnate da testo, o anche lunghi passaggi descrittivi e storici accompagnati da sequenze non narrative ma puramente visuali.
Il ritmo che rincorro è musicale. Un volto, per esempio, ha un suono fortissimo. Allora io cerco interferenze che lo nascondano il più possibile, lo mettano in ombra, lo tratto come paesaggio, come oggetto di scena. Fino a quando decido di isolarlo dal rumore di fondo che gli ho costruito attorno: così può mostrarsi in tutta la sua potenza comunicativa. Altaleno tra la ricerca della parola esatta che sappia sostituire intere vignette e, all’opposto, la composizione di immagini tali da rendere superfluo qualsiasi testo. La sfida è non avere voce nell’immagine e riferimento visivo nel testo.

E la tavola che hai realizzato per Artribune, invece, di cosa parla?
È l’evocazione di un incontro avvenuto qualche anno fa in treno. Prosegue il lavoro Le ricostruzioni del padre partito iniziato con il Baba Jaga Fest. Ancora una volta, la storia di un fantasma. Si intitola Padre, padre, padre.

– Alex Urso

https://www.instagram.com/maurizio_lacavalla

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65-66

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Alex Urso

Alex Urso

Artista e curatore. Diplomato in Pittura (Accademia di Belle Arti di Brera). Laureato in Lettere Moderne (Università di Macerata, Università di Bologna). Corsi di perfezionamento in Arts and Heritage Management (Università Bocconi) e Arts and Culture Strategy (Università della Pennsylvania).…

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