
La Pop Art è certamente uno dei movimenti artistici più familiari al grande pubblico: come raramente capita con altre correnti, basta nominarla per sapere di cosa si sta parlando (e nell’arte non è affatto cosa scontata). Le opere degli artisti annoverati tra le fila di questa categoria sono una parata di colori e immagini tratte dal mondo della cultura di massa: oggetti di uso quotidiano, personaggi famosi e slogan pubblicitari vengono citati al fine di stimolare una riflessione sulle dinamiche del mondo dei consumi. Tale aspetto rende gli esiti di questa corrente apprezzabili anche da chi non è competente in materia: davanti alla Campbell’s soup di Andy Warhol e al Topolino di Mimmo Rotella il pubblico si riconosce finalmente capace di cogliere i riferimenti i visivi e i significati impliciti alle opere, instaurando una speciale connessione con ciò che sta osservando.
D’altronde era proprio questa l’ambizione che negli Anni Cinquanta diede vita al movimento: abbattere l’idea che l’arte fosse solo per pochi, trovando un punto di raccordo tra le opere e le persone comuni, all’insegna della democratizzazione dei linguaggi creativi. Da quel momento in poi il mondo dell’arte non sarebbe più stato lo stesso; e se ancora oggi siamo qui a parlare di banane (ogni riferimento al Comedian di Maurizio Cattelan è puramente voluto) è perché la rivoluzione della Pop Art, in fondo, non è mai terminata.

Le creazioni pop di Roy Lichtenstein
Figura illustre di questo movimento, Roy Lichtenstein si impose tra i gli artisti coevi per la sua efficacia grafica e la creazione di un sistema di immagini del tutto personale. Nato a New York nel 1923, il pittore si forma dapprima all’Art Students League della sua città, per poi studiare arte all’Università dell’Ohio. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e l’impegno al fronte, Lichtenstein termina gli studi sotto la guida di Hoyt Sherman – il quale influenzerà profondamente le sperimentazioni future del ragazzo. I primi passi da artista di Roy Lichtenstein sono però lontani dalle soluzioni pop che lo avrebbero reso celebre nel secondo Novecento. Influenzato inizialmente dal Cubismo e dall’Espressionismo (come dimostra la litografia del 1956 Ten Dollar Bill), il pittore comincia pian piano a inserire nei suoi quadri personaggi animati come Bugs Bunny e Topolino: una chiara anticipazione di quelle che sarebbero state le sue scelte mature.
A partire dal 1960, infatti, le opere di Roy Lichtenstein iniziano ad avere come protagonisti figure ed elementi iconografici tratti dal mondo dei comic e da quello pubblicitario, inseriti all’interno di ambientazioni sgargianti e caratterizzate dalla presenza di puntini colorati (suo tratto distintivo principale). Dipinti in grande formato come WHAAM!, In The Car e Drowning Girl consacrano Roy Lichtenstein nell’olimpo della Pop Art, al pari di figure altrettanto rivoluzionarie come Warhol e Claes Oldenburg.
Nel contesto della rubrica di Artribune che fa incontrare grandi nomi del fumetto contemporaneo ad artisti famosi del Novecento (qui la puntata precedente), ne abbiamo parlato con il fumettista italiano Claudio Marinaccio.
Intervista al fumettista Claudio Marinaccio
Chi è Roy Lichtenstein, per Claudio Marinaccio?
Roy Lichtenstein è stato uno dei pochissimi artisti in grado di unire un’estetica da decorazione fruibile da tutti e un impianto narrativo ben definito. Per spiegarmi meglio: un quadro di Lichtenstein è un oggetto decorativo molto bello, ma è anche una vera e propria visione del mondo ben definita. Il fatto di estrarre frammenti di fumetti e decontestualizzarli rende unica la sua produzione, unendo l’aspetto molto popolare a quello più elitario dell’arte. D’altronde la Pop Art, di cui era uno dei padri, aveva proprio come concetto fondante quello di prendere oggetti comuni e trasformarli per scioccare e provocare, tracciando una linea netta con il passato.
Perché hai scelto di puntare le matite su di lui?
Raccontare a fumetti gli artisti per me è molto divertente, ma nel caso di Lichtenstein è quasi un passaggio obbligatorio, dato che ha rubato a piene mani dal mondo del fumetto. Ho usato il verbo “rubare” non a caso, ma nella concezione del furto già espressa da Picasso. Di Lichtenstein ho sempre apprezzato la sua idea di fondo, un po’ ironica e un po’ cinica, come se volesse prenderci in giro e provocarci ma con delicatezza e coinvolgimento.
L’arte di Lichtenstein attinge a piene mani dal mondo del fumetto e della cultura pop. Da fumettista, che affinità vedi tra la produzione dell’artista e il mondo della letteratura disegnata?
Lichtenstein ha dipinto i pixel digitali prima che nascessero i pixel, utilizzando una tecnica (chiamata “punti di Ben Day”, brevettata nel 1879) per creare un tipo di colorazione che poi sarà utilizzata sempre di più nei fumetti degli anni successivi fino ai giorni nostri: i retini. Spesso i fumettisti lottano affinché la categoria dei comics sia considerata a tutti gli effetti un’arte al pari delle altre. Beh, Lichtenstein ha dimostrato che è così! Qualsiasi fumettista dovrebbe ringraziare Roy per aver portato il fumetto in un’altra dimensione, esponendolo a una inedita attenzione mediatica.
Alex Urso
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