Che fine ha fatto Rosalind Krauss?
Nel suo ultimo libro, la regina della critica d'arte si lancia in una strenua difesa degli artisti che reinventano con fedeltà il proprio medium espressivo. Rinunciando però al metodo che l'ha resa grande. Una prova interlocutoria, da leggere come fosse letteratura.
Ogni nuovo libro o testo di Rosalind Krauss è per definizione (meritatissima) imperdibile. Rigore e inventiva, profondità filosofica e nobiltà d’intenti sono la cifra distintiva che ha prodotto testi decisivi come L’informe e La scultura nel campo allargato.
In linea con la tradizione della critica anglosassone, Sotto la tazza blu, uscito nel 2011 negli Stati Uniti e ora tradotto in Italia, parte da premesse personali riferite in prima persona. Nel 1999 la Krauss ebbe un aneurisma che le provocò conseguenze terribili (temporanee): la frase del titolo è una di quelle che dovette reimparare a pronunciare durante la riabilitazione. Da qui, collegando anche tramite libere associazioni linguistiche le vicissitudini personali e l’arte di oggi, parte una dissertazione (originale, quasi letteraria, strutturata per voci come in un dizionario) sull’uso del medium da parte degli artisti contemporanei. Ruscha, Kentridge, Coleman, Farocki (i “cavalieri del medium“) sono indicati come esempi positivi di reinvenzione del mezzo espressivo, oppure di invenzione ex novo, ancorata però a un linguaggio specifico e strutturale.
È un tema già affrontato negli ultimi anni dalla Krauss, ma stavolta c’è qualcosa che non torna. La deduzione logica appare a tratti forzata e le conclusioni tutt’altro che incontrovertibili. La posizione nei confronti del white cube è ambigua, e sembra contenere un fraintendimento di base. Altrettanto ambiguo è il rapporto tra il concetto affermato di buon uso del medium e il criterio di specificità del medium stesso: è come se la Krauss volesse prendere le distanze da quest’ultimo, consapevole della sua odierna inapplicabilità letterale, ma lo confermasse cambiandogli semplicemente nome.
La spiegazione di queste ambiguità, la loro conferma, giunge alla fine del volume, quando nei ringraziamenti l’autrice dichiara il movente del libro: “Un decennio e più di disgusto per lo spettacolo del meretricio dell’arte che chiamano installazione“. Si tratta dunque di una trattazione basata sulle idiosincrasie di chi la compie, e va detto che sottovalutare l’installazione significa oggi fraintendere il linguaggio (questo sì, specifico) dell’arte contemporanea, nonché le istanze sociali di cui essa si fa portavoce.
La Krauss rinuncia dunque in questo libro (e solo in questo, ci si augura accorati) a due sue caratteristiche fondamentali: l’uso di un metodo pienamente scientifico – per quanto libero e stimolante nei riferimenti e negli intrecci logici – e il suo strenuo progressismo. Il libro è suggestivo, a tratti fulminante nell’inventiva, ma forse va inteso solo come prova letteraria. Trattandosi della Krauss, non c’è bisogno di precisare quanto pesi scrivere queste parole: una sua prova minore colpisce come fosse una delusione sentimentale, e ci si vuole convincere che sia un episodio isolato.
Stefano Castelli
Rosalind Krauss – Sotto la tazza blu
Bruno Mondadori, Milano 2012
Pagg. 160, € 30
ISBN 9788861597235
www.brunomondadori.com
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