Ci sono tutti, o quasi, ma è Henri de Toulouse-Lautrec il coprotagonista, ad affiancare una delle poche figure non storiche in questo romanzo, Lucien Lessard (a dire il vero, un fornaio con quelle caratteristiche esisteva, ma passons). Il nobile frequentatore di bordelli funge da spalla nel dipanarsi della trama e, come ogni spalla che si rispetti, è fonte di umorismo graffiante e talora piacevolmente greve: “‘Voglio dipingere un pagliaccio che si scopa un gatto’. ‘Non credo vada bene neanche per le pareti dello Chat Noir’ disse Lucien. ‘Va bene, una ballerina. Un petit rat dell’opera, di quelli che Degas ritrae spesso’. ‘Con un pagliaccio?’. ‘No, che scopa un gatto. È un tema ricorrente, Lucien. Questo posto si chiama Il gatto nero’. ‘Sì, ma quando hai disegnato il manifesto del Moulin Rouge non ci hai messo un pagliaccio che si scopava un mulino a vento’”.
Il thriller artistico intitolato Sacré Bleu (Elliot, pagg. 316, € 18.50) è firmato da Christopher Moore, scrittore statunitense classe 1957, noto in particolare per un romanzo assai divertente, Il Vangelo secondo Biff, amico di infanzia di Gesù (2002; trad. it. 2008). Colto, documentato, scritto con cura per i dettagli e per la lingua, Sacré Bleu è però – malgrado le intenzioni dell’autore? – più un racconto storico che un plot intriso di suspense. Perché, in fondo, gli oscuri legami tra la fabbricazione del blu oltremare, un Colorista che vive da millenni e una Musa ispiratrice che parla come una scaricatrice di porto sono meno avvincenti delle continue pennellate – è il caso di dirlo – che Moore stende sulla tela di una Montmartre oramai mitica.
Da non sottovalutare, infine, la valenza didattica di Sacré Bleu. Perché, fra una gag e un assassinio, lo scrittore americano infila considerazioni tutt’altro che scontate, soprattutto se consideriamo il pessimo livello d’istruzione artistica che si impartisce nelle nostre scuole. Ad esempio: “Probabilmente, in quel preciso istante, il maestro [Monet, N.d.R.] si trovava a Giverny o a Rouen davanti a una dozzina di tele montate su una dozzina di cavalletti, e si dedicava a ognuna mano a mano che la luce cambiava, ritraendo su tutte lo stesso soggetto dalla stessa angolazione. E se qualcuno pensava che stesse dipingendo dei covoni di fieno e una cattedrale, rischiava di passare per uno stupido agli occhi del pittore. ‘Dipingo momenti. Momenti di luce unici e irripetibili’ diceva”.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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