Relazioni difficili. Un estratto da “L’abbandono” di Martina Cavallarin
Rari sono i testi di autentica critica d’arte pubblicati nel nostro Paese e scritti da autori italiani. Certo, abbondano cataloghi e talora approfondite monografie. Ma scarseggiano terribilmente saggi dotati di impianti innovativi e idee chiare. Militanti, si potrebbe dire. Uno di questi è “L’abbandono” di Martina Cavallarin. L’abbiamo segnalato all’inizio dell’anno su Artribune Magazine e qui vi regaliamo un estratto.
L’abbandono è un’ipotesi d’inciampo nel rapporto d’amore tra le parti. Parti che vivono in relazione e delle quali l’Arte favorisce l’incidente dell’abbandono essendo un’identità relazionale per sua natura ed estensione. L’abbandono è quindi una lacerazione necessaria in un sistema sempre a doppio senso che richiede assoluta partecipazione attiva da parte dei protagonisti e che coinvolge tutte le sfere dell’esistenza. […]
Agendo lungo un vettore che assomma dentro di sé responsabilità, cambiamento e riorganizzazione delle relazioni in atto e in potenza, l’artista deve trovare un felice compromesso tra la sperimentazione e il carotaggio verticale, deve abbandonare il presagio della noia e scavare per trovare il segno, la ripetizione, la somma dell’alto e del basso, una cifra che lo consegni a un processo riconoscibile da non espletare per forza con il medesimo linguaggio, ma con la medesima temperatura personale a clima incostante. Walter Benjamin asseriva che “la noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza”. Ora preme far confluire l’abbandono nella conoscenza responsabile come modo di apportare un valore aggiunto alla stessa, provando e riuscendo intenzionalmente a proporsi dimenticandola a memoria. […]
La creazione è l’atto conclusivo di un processo che vede la somma di alcuni coefficienti indispensabili che strutture abilitate alla formazione e alla cultura hanno il dovere di insegnare e tradurre a coloro che si affacciano al Sistema Arte, in una sorta di Backstage educativo. Ogni artista abbisogna di dotarsi di strumenti da mettere in moto ed elaborare per diventare un professionista. […] Se il critico d’arte, e la critica d’arte, ricominciano a restituire compostezza e serietà alla radice della parola krino, che significa discernimento, si abbandoneranno le esibizioni vuote e i pompier autoreferenziali per dare spazio all’Arte e agli Artisti. […] Per poter procedere nell’instabilità del contemporaneo l’artista deve essere androgino e procedere lungo cinque punti fondamentali: – elevato retaggio culturale – dimenticare a memoria per avere l’energetica genuinità del proprio tempo – avere un’ossessione – sapere esprimere tale ossessione mediante un’opera potente, che intenda comunicare necessità, pensieri e indagini sulla collettività – possedere la capacità di coniugare, nel manufatto artistico, il senso al bello -. Androgino quindi sarà anche l’adattamento, la scena, le modalità e il modo di essere nel contemporaneo di chi vi transita con differenti ruoli, androgino il modo di approcciarsi alle superfici, al campo sportivo in cui si svolge la battaglia che resta il bulimico e colmo perimetro sul e del mondo. […]
L’arte contemporanea deve lavorare e spostarsi oltre le coincidenze storiche e le incidenze culturali, deve gareggiare in terreni ad alta densità tellurica con filigrane capillari da intrecciare e tramare con cura, in una dimensione infinitesimale, quella stessa linea solo pensata che mi piace identificare con l’ente che Marcel Duchamp nomina inframince. Il piccolo intervallo tra due cose, la durata e le coordinate geografiche che scientificamente non si possono misurare né distinguere: “pantaloni di velluto – loro rumore – (mentre si cammina) per lo strofinio delle due gambe è una separazione inframince segnalata dal suono.” L’inframince è la zona della contaminazione, l’ibrido che smarrisce la griglia schematica della percezione elevandosi in evidenza con una crescita a dosi chimiche cliniche e poetiche, l’ambiente per artisti androgini, l’accadimento non eclatante, bensì, come direbbe Georges Perec, “l’infra-ordinario, il rumore di fondo” e per questo non trattenuto e rettilineo, ma libero e sinuoso. […]
L’abbandono è il trauma, impatto che frantuma la singolarità di una parte per disgregarsi in molteplici elementi detonati, distorti rispetto all’asse originario, millesimati e mutati: parti che abbandonano una classe per entrare in un’altra disposizione.
L’abbandono è la ferocia di qualcosa che ci viene sottratto, di una fuga, di una lacerazione che non possiamo controllare. L’abbandono è la spaccatura percepita e sofferta, quindi lo sprofondamento, l’erosione del corpo e del pensiero che l’arte però ci abilita a governare proteggendo la mancanza attraverso la duttilità e l’elevazione a una nuova antropologia della collettività. Il trauma dell’abbandono è passaggio da personale a universale quando nell’opera prenez soin de vous la grande artista androgina Sophie Calle, suggerisce il transito del suo trauma ad altre donne. […]
Lavorando sulle cose del mondo l’artista androgini pratica il suo processo perseguendo la linea della precarietà, la mappatura di tracce e la ricerca d’indizi, ancorandosi inesorabilmente all’elogio della possibilità e del fallimento, elementi all’interno dei quali prolifica la crescita dell’uomo. Nell’anfratto cronologico in cui transitiamo ora, l’individuo necessita di ritrovare un tangibile ombelico antropocentrico esprimendo una spiritualità elevata da calorica efficacia, dolcezza d’animo, capacità visionaria, per riposizionarsi al centro della propria esistenza.
Martina Cavallarin
Martina Cavallarin – L’abbandono. Pratiche di relazione nell’arte contemporanea
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2014
Pagg. 144, € 18
ISBN 9788836629893
www.silvanaeditoriale.it
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati