Cominciamo dalla copertina. L’illustrazione di Massimo Caccia riproduce il lato frontale di una lavatrice. Nello spazio dell’oblò, un geco. La superficie dello stesso oblò – fidatevi – è in teflon. La combinazione di questi tre elementi potrebbero spiegare l’intreccio delle due (più una) storie, prima alternate e poi avviluppate e poi di nuovo sciolte, che costituiscono Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa [qui trovate le recensioni di Luca Bertolo e Christian Caliandro].
Perché ne parliamo nella rubrica Stralcio di prova? Perché questo è lo spazio dedicato alle narrazioni che chiamano in causa l’arte. E una delle due storie, quella che vede protagonista Federico Morpio, ci casca dentro perfettamente. Federico è un artista quasi quarantenne, macerato dall’invidia ma sempre più consapevole. Consapevole della mediocrità del proprio lavoro, delle proprie sensazioni, dei propri asti. E questa coscienza di sé e dell’ambiente matura nel momento in cui, per un evento (in)atteso, si allontana dalla mania. Che poi questo capiti a Venezia, a pochi giorni dalla Biennale, è uno dei paradossi sui quali è costruito il romanzo.
In realtà, imbevuta d’arte è anche l’altra storia. Perché l’avvicinamento alla fede avviene tramite capolavori che solo per semplicità possiamo definire d’arte sacra (la Chiesa Rossa di Milano con i neon di Dan Flavin; la Cena in Emmaus di Caravaggio: “È quasi una bestemmia, questo quadro, perché trasforma in una durata quello che Gesù aveva voluto fosse soltanto un attimo”; il Padiglione della Santa Sede in Biennale). E per la visionarietà di quel cronovisore che Adele e Ottavio inseguono fino all’Isola di San Giorgio Maggiore, e che veramente (non) fu inventato da Padre Pellegrino Maria Ernetti.
I motivi per leggere il libro si moltiplicano. Lasciamo per ultima la lingua, l’accumulazione ora fluida ora incalzante – ora ideogrammatica – alla quale Scarpa sottopone il flusso narrativo.
Ancora non basta? L’ennesimo valore aggiunto risiede nel fatto che l’autore parla dell’artworld con piena cognizione di causa – e non succede spesso, e in questa rubrica lo abbiamo sovente sottolineato. Qualche prova? “L’epoca a cui era appartenuto Cattelan non era in grado di sopportare la disperazione senza che fosse avvolta in un packaging scherzoso. I suoi erano pacchi-regalo avvelenati”. Facile citare Cattelan? In quanti però ci mettono insieme, per dire, João Maria Gusmão e Pedro Paiva oppure Ragnar Kjartansson? Facile citare Artissima? C’è anche The Others. E poi le note estetico-sociologiche: “Il sublime contemporaneo procura un sacro rancore: ci si sente una nullità dinanzi all’economia, invidiando sgomenti il monumentale potere del denaro”.
PS: se amate Artribune, c’è anche lui, a pagina 84.
Marco Enrico Giacomelli
Tiziano Scarpa – Il brevetto del geco
Einaudi, Torino 2016
Pagg. 336, € 20
ISBN 9788806203115
www.einaudi.it
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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