Questo è il nostro bel problema. Siamo fatti di carne e di ossa, di testa, cuore e petto, eppure siamo tecnologici da quando abbiamo capito perché e come si accende un fuoco per illuminare la prima rupe sulla quale abbiamo impresso la nostra impronta artistica. Da allora abbiamo capito tantissime altre cose che nel tempo ci hanno permesso di conquistare la terra, il fuoco, l’acqua e l’aria. L’averle capite è stato faticoso, ma ci è piaciuto. La conquista ancora di più. Ci siamo fatti prendere la mano e più di una volta abbiamo rimosso alcuni limiti (che pure ci siamo dati) che riflettono una natura sui generis. L’arte, come lo specchio-servo-delle-mie-brame, dice che può essere più che umana e tecnologica, onnipotente e forse immortale.
L’immagine che abbiamo visto e quello che abbiamo ascoltato dallo specchio sono stati inebrianti e terrificanti. Alcuni si sono eccitati alla sola idea, altri spaventati a morte. L’arte e la tecnologia in un certo senso significano la stessa cosa, ci appartengono da che veniamo al mondo e rappresentano insieme il nostro modo di sentirlo, di vederlo, di conoscerlo e di abitarlo. Il nostro essere umani e tecnologici trova nell’arte una forma espressiva potente e non infrequentemente innovativa al punto da diventare essa stessa avanguardia (o retroguardia) umana e tecnologica.
Nightshade e la tutela degli artisti dalle IA
Muoviamo da un dettaglio, funzionale ma non marginale, che da solo mette in crisi il concetto di creatività, non ovvio (e ovviamente non unico) presupposto dell’idea che abbiamo dell’opera d’arte, dell’artista, del mercato dell’arte, dell’arte in sé.
Se ne parla da mesi. Gli stessi sviluppatori del The Glaze Project dell’Università di Chicago – che l’anno scorso hanno presentato il software Glaze per difendere gli artisti dall’uso consentito da potenti sistemi di intelligenza artificiale a qualsiasi utente – da qualche giorno hanno effettuato il primo rilascio della versione 1.0 di Nightshade per rafforzarne le difese.
Piccola annotazione tecnica: se Glaze è di nome e di fatto uno smalto digitale progettato per essere applicato alle immagini e confondere i diversi stili artistici “agli occhi” dell’intelligenza artificiale, Nightshade interviene ancora più alla radice apportando modifiche a pixel invisibili a occhio nudo ma che alterano quel tanto che basta l’immagine per trasformarla in un campione di dati non adatto per il model training. L’intenzione degli sviluppatori di Nightshade (il nome si ispira alla pianta nota in Italia con il nome di Belladonna) non è quello di uccidere i sistemi di intelligenza artificiale (poche bacche di Belladonna possono essere letali) ma di “curarli” (con un dosaggio controllato la pianta ha proprietà terapeutica): se per curare intendiamo riequilibrare il gioco di forze tra esseri umani e macchine, nello specifico tra artisti e alcuni sistemi di intelligenza artificiale di tipo generativo in rapporto alla tutela del diritto d’autore.
L’attualità del rilascio di Nightshade richiama alla nostra attenzione una questione che non solo (e non tanto) mette in crisi il diritto d’autore ma mette in crisi il concetto stesso di arte, di espressione artistica e più in generale di creatività e richiama attitudini, prerogative e capacità squisitamente umane quali sono la sensibilità, la ragione, (in senso proprio) l’intelligenza, la facoltà di pensiero che pensa, ripensa e eccede se stesso, grazie alle quali nelle crisi ci diamo la possibilità di ricomporre un orizzonte oltre il quale rinnovare lo sguardo sulla contemporaneità. Se volessimo saltare a conclusioni, potremmo considerare l’intelligenza artificiale a tutti gli effetti un’espressione artistica di per sé dove per arte intendessimo, come si legge nella Treccani, “un complesso di regole ed esperienze elaborate dall’uomo per produrre oggetti o rappresentare immagini tratte dalla realtà o dalla fantasia” ma “per giungere alla definizione di un oggetto come opera d’arte” dovremmo intendere l’“arte come espressione originale di un artista”. La realtà, la fantasia, il modo di essere, sentire, conoscere, lo sviluppare ragionamenti creativi, da cui l’artista trae ispirazione per esprimersi in modo originale, rendono l’arte una potente lente che può far balzare all’occhio eventuali similitudini tra la nostra intelligenza creativa con altre forme di intelligenza, compresa quella artificiale.
L’intelligenza artificiale rappresenta uno specchio attraverso il quale possiamo riflettere sulla nostra condizione
Intelligenza umana e intelligenza artificiale
Circoscrivendo queste considerazioni all’ambito culturale e artistico sappiamo che sono disponibili sistemi di intelligenza artificiale programmati per aiutare (a titolo meramente esemplificativo, non di certo esaustivo, in alcuni casi grazie anche a tecnologie che aumentano e virtualizzano la realtà): gli artisti a spingere oltre le frontiere della media arte o più semplicemente a trovare la giusta tonalità su tele e spartiti; gli esperti a svelarne stratificazioni secolari per dare luogo a nuove interpretazioni e portare alla luce storie inedite; i gestori di istituzioni a programmare politiche pubbliche culturali più intelligenti o almeno ad analizzarne e valutarne i relativi impatti con maggiore precisione; gli spazi espositivi, i musei e le gallerie, a superare barriere fisiche; accrescere l’accesso e i consumi culturali.
La funzionalizzazione del discorso introduce una questione che presenta termini estetici ed etici rispetto ai quali è possibile andare oltre un catalogo in continuo aggiornamento di casi d’uso (e di casi patologici) per capire qualcosa in più del modo in cui possiamo relazionarci con uno strumento pensato, progettato e realizzato da (e per gli scopi di) bipedi sapiens della nostra stessa specie. Ma non solo. Per capire qualcosa dalla nostra umanità e dall’hardware nel quale prendecorpo. La nostra corporeità, il fare esperienza di ciò che sentiamo, colorarla con emozioni e sentimenti e conservarne una memoria sono alla base della nostra capacità di ragionamento, della coscienza, della creatività, dell’intenzione delle azioni che compiamo, di ciò che omettiamo, e della responsabilità delle conseguenze (alle quali ammettiamo o escludiamo di pensare), della libertà, dell’umanità da riconquistare.
Il corpo e il posto dell’umano nell’epoca dell’IA
Non solo abbiamo un corpo ma siamo il corpo che abbiamo. L’intelligenza artificiale quandanche dotata di un corpomanca di una corporeità capace di essere, sentire e conoscere l’ambiente che la circonda diverso da quello dei dati all’interno del quale opera. Questa circostanza non è banale ma è essenziale, fondamentale anche solo per poterla pensare in quanto soggetto (sebbene giuridicamente non ancora riconosciuto, comunque) agente all’interno di relazioni umane e non. Da parte sua, l’intelligenza artificiale (lo stesso si potrebbe dire della tecnologia in generale) rappresenta uno specchio attraverso il quale possiamo riflettere sulla nostra condizione, sui nostri “poteri” intesi nel senso più letterale come capacità, su prerogative, attività, forme espressive che a volte (e per definizione) sfuggono a definizioni e ci mostrano quel che secondo Blaise Pascal da sola non può spiegare. L’arte come la tecnologia, il rapporto tra di esse e il nostro rapporto con esse, debbono essere continuamente pensati e ripensati. Nella tecnologia specchiamo il nostro essere umani, l’essere creativi, l’espressione artistica, il prodotto culturale di ciò che siamo, del tempo in cui viviamo, del mondo come lo vediamo e del modo in cui ci relazioniamo e conviviamo gli uni insieme agli altri, alle altre specie, ai nudi chatbot e ai performanti robot. Compresi i tic, i tabù, i vizi, le virtù, i pregiudizi che abbiamo e i problemi che ci facciamo. Se da una parte tic, tabù, vizi e virtù, trovano nell’espressione artistica lo stesso riflesso che l’umanità trova nella tecnologia, i pregiudizi e i problemi ci invitano a svolgere un’ulteriore riflessione che ci porta su un piano nel quale gli aspetti esistenziali si sovrappongono a quelli funzionali.
Un passo indietro: anche tra i più esperti in pochi avrebbero scommesso che così presto il linguaggio naturale sarebbe diventato un linguaggio di programmazione o che una coalizione di produttori avrebbe dovuto introdurre una filigrana per riconoscere, bollinare come autentiche e distinguere le foto che sono state veramente scattate dalle immagini che sono state generate da sistemi di intelligenza artificiale. Ne deriva che se siamo tutti potenzialmente in grado di programmare una macchina dal punto di vista tecnico per scrivere una poesia, comporre un brano musicale o realizzare un’immagine artistica grazie a chatbot operanti su modelli linguistici e visuali possiamo considerare che: 1. fatta salva l’importanza delle discipline scientifico-tecnologiche, quelle umanistiche tornano ad essere apprezzate come funzionali e fungibili; 2. potrebbe sfumare la differenza tra improvvisazione e percorsi professionali e artistici.
Il primato dell’intelligenza umana rispetto a quella tecnologica potrebbe risiedere in buona parte nel nostro essere problematici, nella capacità che abbiamo di porci e porre problemi
La capacità di creare problemi
L’accesso generalizzato all’intelligenza artificiale di tipo generativo ha stimolato anche le industrie culturali e creative più innovative (dalle case di produzione, alle piattaforme, ai videogiochi, ecc…) stanno assumendo con maggiore frequenza laureati in discipline umanistiche da assegnare a funzioni aziendali tecnologiche: da questi saperi ci si aspetta una capacità ancora sconosciuta alla più sofisticata delle intelligenze artificiali. Il saper creare problemi, porre la giusta domanda, provvedere il giusto input, tecnicamente fornire il prompt scritto meglio. Per disegnare il giusto prompt fa la differenza la cultura personale e la ricchezza del vocabolario, l’essere problematici o più correttamente il saper creare problemi e il saperli porre, su cui si può contare per indicare le parole per formulare la domanda più congeniale alla base del promptanche quando ci si affida ad un software (anch’esso sistema di intelligenza artificiale) che crea prompt efficaci.
E questo è il punto: il primato dell’intelligenza umana rispetto a quella tecnologica potrebbe risiedere in buona parte nel nostro essere problematici, nella capacità che abbiamo di porci e porre problemi. Saper creare problemi e tradurli nel giusto prompt è oggi importante quasi quanto (se non in alcuni casi di più) del saperli risolvere. Questa capacità ci distingue con nettezza dalla macchina, qualifica, specializza e funzionalizza il nostro rapporto con essa in ragione di ciò che siamo e di quello che vogliamo. Ecco che anche in ambito culturale e artistico la risposta alla domanda legittima su cosa distingue professionisti, intellettuali e artisti (sia pure presunti) da quelli improvvisati (sia pure con mercato di riferimento) risiede nel bagaglio artistico-culturale, nella sensibilità, nello sguardo sulla realtà, nella capacità tecnica di esprimere ciò che si prova e che si ha in mente, nell’essere riconoscibili.
Il rapporto tra arte e tecnologia
La possibilità di pescare nella rete linguaggi, immagini, suoni e modelli da ricopiare e assemblare, potrebbe dare luogo a composizioni corrette dal punto di vista della grammatica e della sintassi di testi, suoni e immagini. Corrette sintatticamente ma prive di significato a meno che elaborate a seguito di un input autenticamente creativo. Come a dire, il momento della creazione potrebbe anche essere separato e distinto dal momento successivo della realizzazione (dal quale potrebbe anche prescindere delegandolo alla macchina), se della creazione prendessimo in considerazione lo spirito intangibile e infungibile fatto di corporeità, emozioni, precomprensioni, volontà, intenzione, situazione. Siamo il corpo che ci costituisce. “I semi – scrive Richard Powers – ricordano i periodi della loro infanzia e germogliano di conseguenza”. Il nostro modo di essere, di pensare, di vivere, dunque di esprimerci attraverso forme artistiche o di emozionarci in presenza di esse, dipende costitutivamente dal nostro corpo, da come è incarnato in ciascuno di noi, dalle esperienze, dalle emozioni, dai sentimenti che viviamo, dai ricordi che ne conserviamo o che ne rifuggiamo, dal modo in cui li componiamo, scomponiamo e ricomponiamo attraverso lo spazio e il tempo, dalla capacità di memoria, immaginazione, desiderio e responsabilità, dall’umanità e dalla mappatura e base di ragionamento creativo che ne facciamo: che dalla realtà e dalla fantasia trae l’idea stessa prima che prenda corpo in una forma espressiva, sia pure mediata da un comando fatto di parole ad una macchina. Prompt.
Michele Gerace
Articolo tratto dal libro di Michele Gerace “Sui generis. La forma del desiderio e il bel problema dell’essere umani e tecnologici” (Rubbettino), realizzato grazie al contributo del Centro Studi Americani
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