Che cosa vedevano i vostri occhi, in fondo al bivio
fessurato? Che cosa si spostava sui prati oltre i fasci
dei reticolati? Che cosa avete pensato – tra le schegge
accese, tra tanto strazio di umana carne con questi
teribili armi, in terribili anni di non-sepolture e
morti per la grandezza della patria, in prati dove
altre granate o fuccillerie li finiscono li sepeliscono
anche vivi, da altezze di giorni infuriati sotto
oscure gallerie di neve, da sonni sprofondati al buio
umido del budello, che si dirama capovolto
sempre più verso il fondo – che cosa avete pensato
quando siete morti?
Socrate affermava che i poeti non compongono usando il cervello ma bensì tramite una sorta di ispirazione naturale, simile in tutto a quella di indovini e profeti. L’autrice che andremo a intervistare oggi – seconda della serie di interviste a tema cinquina del Premio Strega Poesia 2024- sembra invece avere in sé entrambi i moventi: un connaturato afflato immaginativo (e spesso umoristico), e una mente razionale e studiosa. Sia dalla scrittura sia dal suo modo di fare, infatti, è emerso subito un tale rigore che avrebbe forse spiazzato il filosofo greco, a trovarlo in un poeta. Mi ha colpita, per esempio, l’atto di cura nel farmi inviare – prima della stesura dell’articolo – una copia cartacea del suo libro, Eredità ed Estinzione (Donzelli, 2024), ovvero il testo finalista allo Strega: un gesto, insomma, di grande serietà e professionalità.
Chi è la poeta Giovanna Frene
Ma di chi si tratta, chi è la poeta in questione? Giovanna Frene (Asolo, 1968), poeta e studiosa, è stata scoperta da Andrea Zanzotto. Tra gli ultimi libri di poesia: Sara Laughs, D’If 2007, Il noto, il nuovo (Transeuropa, 2011), Datità, (1a ed. Manni 2001) con postfazione di Andrea Zanzotto (Arcipelago Itaca, 2018). Come critica militante è vicedirettore del blog del collettivo Poeti post 68, fondato da Elisa Donzelli e co-dirige la rivista online Inverso. Giornale di poesia e collabora inoltre con varie riviste. L’intervista che segue è il risultato della nostra chiacchierata e da essa emergono, io credo, questi suoi due lati così evidenti: l’estro della poeta, la formalità della studiosa.
Intervista a Giovanna Frene
Giovanna, la tua ultima fatica poetica si intitola Eredità ed Estinzione e fa parte dei cinque libri finalisti al Premio Strega Poesia di quest’anno. Cosa credi che abbia visto, in questo testo, la giuria per includerlo nella cinquina?
In questo caso è utile condividere la motivazione scritta appunto dal Comitato scientifico, che credo dia la risposta più chiara e completa: «In questo libro Giovanna Frene si mostra nella sua compiuta maturità artistica, raccogliendo le suggestioni della sua biografia poetica e trasponendole a un livello superiore. La poesia di Eredità ed Estinzione ha una dimensione orizzontale, ampia, e una profondità di scavo verticale: non teme di confrontarsi con grandi temi.
Spiegaci meglio…
Il verso lungo circoscrive il natío paesaggio del Nord Italia, e allo stesso tempo abbraccia i luoghi della Prima Guerra Mondiale, come se non fossero trascorsi già più di cento anni, tanto è viva la memoria delle sue inesorabili conseguenze. Ma la memoria per Frene non è nulla senza la Storia, e il secolo concluso si proietta, in quest’opera, sullo sfondo di ancora più vertiginose antichità e immani distruzioni di imperi, da Roma a Bisanzio. Su queste rovine, e sulla loro paradossale promessa di futuro aleggia la poesia come sostanza in continuo cambiamento di stato, da solido a liquido a gassoso, compiendo la promessa di dare vita a un’opera che, nel mantenersi fedele a una rigorosa linea di ricerca, accetta in pieno la sfida della compiutezza e della comunicazione aperta». Posso solo aggiungere che essere capiti nel proprio lavoro poetico dà una soddisfazione molto grande.
Antichità romane, Sestine bizantine, Canzoni all’Italia, Larve acquatiche, Linea Gotica: qual è il capitolo della tua raccolta a cui sei più affezionata e perché?
È difficile dire a quale di queste sezioni io sia più affezionata, perché tutte insieme concorrono alla realizzazione dell’organismo storico-poetico che è Eredità ed Estinzione. Tuttavia, se dovessi scegliere, sceglierei le Canzoni all’Italia, perché vanno a toccare una vera e propria istituzione della nostra storia letteraria e insieme toccano un punto molto privato, ossia la partecipazione dei miei nonni alla Prima guerra mondiale: specialmente è presente mio nonno paterno Francesco nell’ultima delle Canzoni, scritta in dialetto perché è la lingua con cui gli parlerei ancora oggi, mentre nel resto dei testi lascio grande spazio alla voce del fante semicolto, e mio compaesano, Giuseppe Bof (che quindi è come una figura del nonno), iniziando di fatto quasi ogni Canzone con le sue parole di testimonianza. Questo accordo, che è insieme anche un accenno di ritmo, mi è servito appunto come partenza per tutti i testi di questa sezione, che possono definirsi come delle variazioni linguistiche. La più estrema di queste variazioni è la Canzone IV, dove immagino un dialogo in dialetto tra Bof e un suo commilitone su un fantomatico incontro con il fante Mussolini. Da ultimo, io vivo nella zona pedemontana del Monte Grappa, cioè uno dei luoghi dove si svolse l’ultimo anno di guerra.
Un tema ricorrente in questa tua opera è il terminarsi dei cicli, lo sgretolarsi dei grandi imperi. In quale impero ci troviamo a vivere attualmente e come credi che ne scriverai, se lo farai, quando tramonterà?
Non nascondo che adoro la visione storica di Giambattista Vico, con quella spirale che incarna i corsi e ricorsi della storia: sebbene sia una struttura conoscitiva che è stata creata dall’uomo per permettere appunto la conoscenza, trovo affascinante che si ipotizzi che alcuni eventi si ripetano in maniera simile, creando la possibilità di una lettura analogica. Penso spesso al concetto di imperium declinato nei vari imperi passati (tra parantesi, anche quello delle rovine è un tema clou della poesia universale), è un pensiero che dà abbastanza le vertigini e che la nostra struttura conoscitiva in realtà può solo abbozzare come sensazione vaga, se non altro per le dimensioni di un’idea che di fatto ci trascende. Oggi, con la globalizzazione, l’impero che io conosco, perché ci vivo, non ha più struttura geografica, ma spazio-temporale, e si chiama “Occidente”: è un impero poroso, perché ha sviluppato la capacità di esserlo, ma non credo che sarò ancora in vita quando accadrà una sua metamorfosi radicale – perché in realtà nulla scompare e tutto cambia.
Tra le parole di Eredità ed Estinzione c’è un estro, un punto di ironia amplificata dal gioco di contrasto che si crea tra essa e il tuo grande rigore formale, che insieme contribuiscono a creare una grande tridimensionalità nell’opera. Credi che questo sia vero e, se sì, come hai imparato a creare un equilibrio così prezioso?
Questa considerazione è esatta, anche se parlerei di sarcasmo vero e proprio (alla Kraus) più che di ironia: in un certo senso, questo sarcasmo erode ogni volta che si legge la perfezione formale dentro cui è inserito, creando un attrito simile a quello delle unghie sulla lavagna. La tridimensionalità dell’opera credo che derivi in parte da questo movimento, in parte dalla mia formazione nelle arti plastiche e nella musica, per cui la combinazione di strutture formali salde e precise, ben riconoscibili a un primo colpo d’occhio sulla pagina, con le suggestioni sonore e immaginative trasmesse dalla lingua lascia la sensazione di trovarsi davanti una ipostatizzazione degli eventi, se non proprio una loro materializzazione fantasmagorica intorno al lettore. A volte l’immaginazione è una realtà più forte della cosiddetta realtà.
In fine ti chiederei questo, che possiamo dire essere “la” domanda: quale è il motivo per cui scrivi?
Il motivo per cui scrivo è venuto chiarificandosi nel tempo, perché non da subito lo scrivere è stato il mio modo di essere al mondo. All’inizio, durante l’adolescenza, ho osservato che la scrittura compariva accanto alle altre arti che praticavo e che erano il mio legame con il mondo; poi con il tempo è diventata l’arte predominante, perché mi sono accorta che per il mio particolare modo di sentire la parola riassumeva le altre arti. E per me è ancora adesso così.
da un punto decentrato del lavorìo del fondo, tutto il passato
è la visione del presente come se dovesse ancora accadere, come se
accaduto dovesse rientrare nel suo bossolo di destino
assodato ben piantato nell’oro invasato dei suoi primi avi,
quando dalla spiovente nube inarcata a fardello la destra destinata
districò spirito, cielo, occhi, età, piaceri, in somma i vecchi cugini Bene
e Male, pagliuzze splendenti evaporate volando in cielo sotto
immensi orridi rovesciati monticelli, lasciati
in mezzo al perfetto e all’imperfetto, al pasto e a ciò che lo divora:
da un punto decentrato del passato il lavorìo emerso
a futura infelicità diffonde il suo luccichio.
Maria Oppo
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