Un libro spiega come costruire senso di comunità con l’arte
Il nuovo saggio di Serena Carbone esplora le dimensioni d’incontro tra arte e comunità, superando le barriere tra pubblico e privato e considerando l’opera non nella sua dimensione di prodotto finito ma in quella di processo anche relazionale
Serena Carbone, nel suo libro L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità, edito da Gli Ori, esplora un tema complesso e di grande rilevanza per l’arte contemporanea: il ruolo delle pratiche artistiche nel contesto sociale e comunitario. Con uno sguardo attento e multidisciplinare, l’autrice analizza il rapporto tra arte e comunità, facendo emergere come l’arte possa esprimersi anche al di fuori degli spazi istituzionali come musei e gallerie, e che immergendosi nel tessuto sociale, dialogando con esso contribuisca alla costruzione di nuovi legami comunitari.
Arte e comunità negli Anni Novanta nel libro di Serena Carbone
Carbone traccia un percorso che si concentra soprattutto sugli Anni Novanta, un periodo di grandi trasformazioni per l’arte contemporanea, in cui si affermano nuovi modelli espositivi e si sperimentano linguaggi capaci di infrangere i confini tra arte e vita quotidiana. L’autrice cita come punto di svolta la mostra Chambres d’Amis curata da Jan Hoet nel 1986 a Gent, questa esposizione innovativa portava le opere d’arte direttamente nelle case dei cittadini, superando così le convenzioni museali e suggerendo nuove modalità di fruizione artistica. È proprio in questa direzione che si muove il libro, indagando come gli artisti contemporanei siano riusciti a costruire forme d’arte partecipativa e relazionale, capaci di agire direttamente nel contesto sociale. Carbone analizza anche l’evoluzione delle pratiche artistiche legate alla comunità attraverso concetti come l’utopia, le micro-utopie e le pratiche relazionali, sviluppando una riflessione che si nutre di importanti riferimenti teorici, come quello di Felix Guattari. Quest’ultimo, con il concetto di “strategie di prossimità”, sottolinea come le grandi utopie sociali e politiche abbiano lasciato spazio a piccole pratiche quotidiane, nelle quali gli artisti creano microspazi di resistenza all’interno delle dinamiche sociali e culturali più ampie.
Le pratiche artistiche e la collettività nel contesto italiano nel libro di Serena Carbone
Il volume è particolarmente attento a mettere in luce la specificità del contesto italiano, dove pratiche artistiche relazionali e collettive si sono sviluppate a partire da una tradizione che affonda le sue radici nel territorio e nel tessuto sociale. Esemplare è il caso del collettivo Oreste, che negli Anni Novanta ha rappresentato uno dei più rilevanti esperimenti di arte partecipativa nel nostro Paese, cercando di ripensare il ruolo dell’artista e del pubblico all’interno di una comunità più vasta. Attraverso il racconto di esperienze concrete, come le attività di Oreste e di altri gruppi artistici italiani, Carbone ricostruisce un panorama variegato e ricco di sfumature, dimostrando come l’arte possa farsi veicolo di riflessione critica e di trasformazione sociale. Uno degli aspetti più interessanti del testo è la capacità dell’autrice di restituire una visione complessa e stratificata delle pratiche artistiche contemporanee, mettendo in discussione la separazione tra arte e vita, tra spazio pubblico e spazio privato, e suggerendo nuove modalità di interazione tra l’artista e la comunità.
L’arte come trasformazione sociale nel libro di Serena Carbone
L’autrice sostiene che l’arte contemporanea debba continuare a interrogarsi sul suo ruolo sociale, soprattutto in un contesto globale in cui le disuguaglianze e le tensioni sociali sono sempre più evidenti. L’arte in preda al possibile si rivela un libro fondamentale per chiunque voglia comprendere le dinamiche che hanno caratterizzato una tipologia di pratica artistica poco conosciuta e indagata proprio perché messa in pratica in contesti inusuali, effimeri e cangianti. Quello che emerge è il potenziale di trasformazione sociale che queste tipologie di interventi artistici hanno prodotto. In conclusione, Serena Carbone ci invita a riflettere su come l’arte possa tornare a essere uno strumento di costruzione comunitaria, capace di restituire al pubblico non solo l’opera finita, ma un processo creativo che coinvolge la società nel suo complesso.
Serena Carbone, L’arte in preda al possibile
Gli Ori, 2024
pag. 112, 16,00 €
Intervista all’autrice
Qual è la genesi di questo libro?
Io e Pietro Gaglianò, direttore della collana I Limoni per la casa editrice Gli Ori, ci siamo conosciuti diversi anni fa perché entrambi facevamo parte del comitato scientifico di NESXT, il festival degli spazi indipendenti diretto da Olga Gambari dal 2016 al 2019 a Torino. La genesi del libro sta lì: nelle discussioni sui collettivi indipendenti, sul lascito degli Anni Novanta, sulla possibilità di fare rete e di interfacciarsi o meno con la comunità. Queste discussioni già allora si erano trasformate spesso in articoli o interviste, così alla proposta di Pietro di pubblicare per loro, ho colto l’occasione per mettere mano a questo materiale e rifletterci un po’ su.
Qual è stato il processo di ricerca che ti ha permesso di individuare questa specifica modalità/pratica artistica di “costruzione di comunità”?
L’indagine sul campo, scrivere e andare alla ricerca delle pratiche “indipendenti” mi ha portato a fare esperienza della costruzione di comunità. L’indipendenza dal sistema che si voleva ottenere si configurava infatti per lo più come un ridimensionamento notevole se non un azzeramento delle istituzioni e dei modelli di mediazione tra artista, pratica e individui o pubblici. Penso in particolare ai laboratori di Cesare Pietroiusti alla Fondazione Lac O Le Mon e alla condivisione del tempo, dello spazio e delle parole di un gruppo di venti persone che da sconosciute le une alle altre nel giro di una settimana sono diventate un gruppo con ruoli, scambi e doveri; oppure ad A cielo aperto di Bianco-Valente, dove gli abitanti del piccolo borgo di Latronico (PZ) sono parte attiva ed essenziale di progetti e opere. Poi a queste esperienze si unisce il quadro di studio e letture nel quale mi sono mossa, prima con l’artista belga Marcel Broodthaers alla ricerca della sua “rivoluzione dello sguardo” e poi – in questo caso specifico – con Henri Lefebvre e la sua carica propulsiva verso la trasformazione della società.
È corretto affermare che questa tipologia di approccio artistico ha indubbiamente una connotazione politica? Anche perché la sua genesi risale proprio in un periodo storico estremamente intenso e proficuo politicamente.
Sì, certo, è corretto. Penso, infatti, che ci sia una questione etica molto forte, o per lo meno mi piace pensarlo. E una questione etica è anche una questione politica. Benjamin mette ben in evidenza le derive da simulacro a cui tende l’opera nel momento in cui spogliata dalla funzione rituale e antropologica entra nell’ambito dell’estetico tecnologico. Oggi più che mai, privata dell’agito etico, la patina attrattiva dell’arte assorbe dalle opere gli aspetti emancipatori. È facile credere che usare la tecnologia coincida tout court con l’essere migliori (ma in quanti conoscono i processi latenti dei dispositivi che utilizzano?), ed è come regredire al tempo in cui si pensava che il progresso avrebbe portato al benessere. E poi infatti scoppiò la Prima guerra mondiale, e ci si accorse che il progresso più che con il benessere coincideva con il potere. A dirla con McLuhan, gli artisti hanno le antenne, Balzac, Flaubert, Baudelaire avevano intuito le ambiguità della modernità, mentre Delacroix dipingeva scene di guerra ed esotici piaceri; il pensiero critico – etichetta che amano usare i moderni pedagoghi – è proprio del cogito di chi esercita una téchne che nel suo fare diventa più resistente ai processi di alienazione, questo è il linguaggio dell’arte, questo è il linguaggio della politica nel suo farsi cittadinanza attiva. Gli Anni Novanta sono stati un periodo intenso, si configurava storicamente un nuovo assetto globale, e la rete – grazie a Internet – era salutata come strumento di emancipazione, e l’arte ha banchettato al suo cospetto. Poi c’è stato l’11 Settembre 2001 e la crisi economica. Non credo negli scenari apocalittici, ma è necessario riscrivere l’orizzonte simbolico nel quale ci proiettiamo. Gli artisti e gli uomini di lettere sono cercatori di senso, e allora qualcosa potrebbero ancora dire alla società.
Dopo aver letto il tuo saggio quella che viene definita “arte relazionale” ne esce un po’ ridimensionata, sia come pratica, non più di tanto innovativa, che come portatrice di utopie non realizzabili.
Ne esce ridimensionata sicuramente la carica istituzionalizzata. Non si può ricercare l’utopia nei gangli dei ministeri, sarebbe assurdo. È solo ed esclusivamente nel vissuto che questa pratica conserva la sua carica rivoluzionaria, per dirla con Lefebvre.
Dario Moalli
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