Oltre la documentazione: la fotografia delle donne dall’inizio del Novecento a oggi
Un percorso che ci accompagna attraverso un secolo di storia con l'opera di cinque autrici straordinarie. Da Lisette Model a Gillian Wearing, passando per Diane Arbus, Nan Goldin e Cindy Sherman. L'articolo di Angela Madesani
Pur pensando che parlare di fotografia al femminile sia limitativo – infatti non facciamo mai l’opposto – mi pare, tuttavia, di potere rintracciare un fil rouge nel lavoro di alcune fotografe e artiste straordinarie, cronologicamente collocabili dalla prima metà del Novecento sino ai nostri giorni, che direttamente o indirettamente si sono passate il testimone. Mi piace trovare nel loro lavoro una sorta di continuità che va ben oltre una cifra di matrice stilistica. Si tratta piuttosto di una faccenda di metodo, di approccio che, mutatis mutandis, nel corso degli anni si sviluppa in relazione al proprio circostante. È uno sguardo nei confronti dell’esterno, che non è mai semplice fotoreportage, che parte sempre e comunque dalla proprio dimensione personale, senza mai divenire intimismo. Cerchiamo quindi di costruire qui un breve percorso in tal senso, che non ha certo la pretesa di essere esaustivo, ma cerca, piuttosto, di fissare dei punti fermi.
La formazione dell’austriaca Elise Seybert, nata all’inizio del XX secolo, è prettamente mitteleuropea: studia musica con un maestro di eccezione come Arnold Schönberg, si dedica alla pittura e infine alla fotografia, in cui diviene una fuoriclasse sia come autrice che come insegnante. Dopo quindici anni passati in Francia, dove scatta foto entrate ormai nell’immaginario comune, nel 1938 approda negli Stati Uniti. Nel frattempo il suo nome è mutato. È diventata Lisette Model e a New York entra nel giro del famoso art director Alexey Brodovitch, frequenta Paul Strand, Berenice Abbott.
I suoi soggetti sono persone incontrate per strada, in spiaggia. Personaggi celebri e soliti ignoti. Il suo stile inconfondibile, fatto di riprese con obiettivi grandangolari, flash puntati, immagini rubate, racconta un’America diversa. Una delle sue foto più famose, scattata intorno al 1940 sulla spiaggia del popolo newyorchese, ritrae una donna, decisamente sovrappeso, in costume da bagno. Siamo nel 1940. Il mondo sta per cambiare irreversibilmente. Il titolo dell’immagine è Coney Island bather. “È facile immaginare quanto sia meravigliosamente noioso dipingere un bel corpo. Ma un corpo brutto è molto affascinate”. La macchina fotografica deve esplorare, documentare la realtà esterna, ma anche il mondo interiore, complesso e aggrovigliato. E come non pensare in tal senso alla sua formazione viennese, al peso che può avere avuto la lezione freudiana che si respirava nell’aria della capitale austriaca degli anni Venti in cui Lisette si forma?
RACCONTARE L’INVISIBILE
Model è anche un’insegnante straordinaria. Tra i suoi allievi alla New School for Social Research, al Greenwich village, c’è una donna di poco più di trent’anni, una fotografa di moda, stanca del suo lavoro di assistente del marito, decisa a cambiare vita. Si chiama Diane Arbus e vuole focalizzare il suo sguardo “per raccontare le relazioni, i sogni e le delusioni che apparentemente sembrano invisibili”.
Tra le due donne nasce un feeling particolare, diventano amiche. Nel lavoro di Diane è possibile cogliere la traccia della lezione di Lisette. Figlia dell’alta borghesia americana, apre molto giovane uno studio di fotografia con il marito Allen Arbus. Ma quel mondo le va stretto e ben presto lo abbandona per seguire i corsi di Brodovitch e della Model. La sua ricerca, che è un cardine imprescindibile attorno al quale ruotano molte situazioni venute dopo di lei, si colloca immediatamente su un piano assai diverso da quello che proponeva la fotografia tradizionale. Si pone in antitesi con il mondo di The Family of Man, la grande mostra itinerante ideata da Edward Steichen. Arbus riesce a rendere mostruosa la banalità del quotidiano e banale la diversità. I suoi soggetti sono spesso transessuali, ermafroditi, nani, handicappati, malati. Un mondo ai margini che Arbus fotografa nella più assoluta normalità, in aperto contrasto con una middle class banale e crudele. È rottura. Sono gli anni della Beat Generation.
Nel 1967 le sue foto, insieme a quelle di Lee Friedländer e Garry Winogrand, vengono scelte per rappresentare l’America all’interno della mostra New Documents. Le ultime immagini, realizzate tra il 1970 e il 1971 sono dedicate a soggetti affetti dalla sindrome di down: sono in spiaggia, ballano, giocano, si mascherano. Arbus osserva e trasmette la gioia con un’amarezza incontenibile. La condizione umana è profondamente ingiusta e poco si può fare per cambiare le cose: non esiste una via d’uscita. La fotografa è sempre più in crisi, sociale, etica, personale. Nel 1971 si suicida.
Alla Biennale di Venezia del 1972, per la prima volta, arriva la fotografia, e il lavoro di Arbus è protagonista. Le sue immagini sono un documento fortissimo e scioccante della contemporaneità; fotografie in cui tecnica, l’“arma speciale”, della quale si serve, e pensiero si fondono alla perfezione.
DAL PERSONALE AL SOCIALE
Mi pare di riuscire a scorgere il fil rouge di questo discorso nel lavoro ormai trentennale di Nan Goldin (1953). Oggetto della sua ricerca è la vita intima della sua grande famiglia di amici, amanti, compagni di strada. Goldin è spesso protagonista delle sue foto, talvolta durissime. Il suo lavoro iniziale in bianco e nero, passato in quegli anni inosservato, è datato all’inizio degli anni Settanta ed è intitolato Drag Queens, protagoniste sono le sue coinquiline, due drag queen, appunto.
A partire dal 1979 presenta in alcuni club newyorchesi delle serie di diapositive accompagnate da significative e non casuali colonne sonore. E quindi l’indagine sulle relazioni sessuali in The Ballad of Sexual Dependency, del 1985, in cui è l’osservazione dei ruoli nella coppia. Potrebbe essere un lavoro realizzato oggi. Degli anni Novanta è I’ll be Your Mirror (1992), in cui sono i concetti di celebrazione e perdita, le tragiche conseguenze dell’Aids che tanto ha colpito i suoi amici, i suoi compagni di strada. Uno sguardo sul sociale che parte dall’intimo e che all’intimo ritorna attraverso la società.
Soggetto delle sue foto è l’americana Cindy Sherman (1954), che dopo gli interessanti esordi sperimentali, mentre frequenta ancora il college, dà vita a un lavoro straordinario che avrebbe segnato l’immaginario culturale e artistico da quel momento in poi con Untitled film still. Si tratta di un lavoro di ampie dimensione sul linguaggio iconografico della moda, del cinema, della cronaca, della pornografia, il primo lavoro di fotografia artistica postmoderna. È la capacità straordinaria di uscire dai diversi generi per dare vita a un linguaggio unico, immediatamente riconoscibile. Sherman è in grado di coinvolgere lo spettatore creando dei tipi femminili immediatamente riconoscibili. “Untitled film still”, come sottolineato da Charlotte Cotton, “è la dimostrazione dell’istanza avanzata dalla teoria femminista che la femminilità sia il frutto di una sovrapposizione di codici culturali e non una qualità naturalmente inerente alla donna, o parte della sua essenza”.
Ci piace chiudere queste breve passeggiata con un accenno al lavoro di Gillian Wearing, nata nel 1963, e con un suo lavoro dal complicato titolo Segni che dicono esattamente quello che volete che dicano e non dicono quello che qualcun altro vuole che voi diciate del 1992-1993.
Ai suoi soggetti Wearing consegna un foglio di carta perché vi scrivano qualcosa che li riguardi e poi li fotografa con in mano il messaggio stesso. È un altro mondo di cercare di cogliere le persone, è un superamento dell’idea di documentazione. Così come nei ritratti con la maschera, in cui tutto si gioca su un complesso equilibrio fra realtà e finzione.
– Angela Madesani
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