Per una storia femminile del fotogiornalismo
Già dai primi decenni del Novecento, la cronaca per immagini può contare sull'apporto delle donne. Ma che cosa ha significato e cosa comporta ora, l'essere una reporter? Ce lo racconta Caterina Porcellini
Il fotogiornalismo, in particolare la fotografia di guerra e poi il reportage dalle aree di conflitto, è generalmente associato ad alcune figure divenute ormai storiche. Se dobbiamo fare un nome su tutti, allora Robert Capa (Budapest, 1913 – Thai Binh, 1954, all’anagrafe Endre Erno Friedmann) è quello che verrà in mente ai più, sia per aver documentato cinque diversi scenari bellici – dalla guerra civile spagnola alla prima guerra d’Indocina, passando per le celebri riprese dello Sbarco in Normandia – sia per aver fondato l’altrettanto conosciuta agenzia Magnum Photos.
Vedremo come ci sono diversi modi – e generi, persino – all’interno della cronaca per immagini, ma è importante tenere a mente subito un dato: a dispetto della percezione – stereotipata? – presso il grande pubblico, sin dalle prime fasi del reportage moderno, proprio nel cuore dell’azione, di fianco ai grandi fotografi universalmente noti c’erano anche le donne. Se non riuscite proprio a vedercela, una donna tra esplosioni e contingenti militari, in remote aree rurali del pianeta o sulla scena di un omicidio, state pure tranquilli: avrete modo di scoprire che siete in buona compagnia. E che non soltanto l’evenienza di una reporter si può immaginare, ma già è successo e succede ancora.
FOTOGRAFE A CAVALLO DEL NOVECENTO
Dicevamo, la storia del fotogiornalismo è costellata di grandi uomini e donne, anche se – vuoi la proporzione tra i generi, vuoi quel divario uomo-donna a livello professionale su cui c’è ancora da lavorare – non si insiste troppo sul tema. Eppure, di fianco a Robert Capa c’era Gerda Taro (Gerda Pohorylle, Stoccarda, 1910 – Brunete, 1937), compagna non solo nella vita ma anche sul campo. Anzi, di questo sodalizio l’elemento più conosciuto è forse il tragico destino che accomunò i due fotografi: Gerda perse la vita poco lontano dal fronte di Brunete, dove nell’estate del 1937 si consumò una delle più cruente battaglie della guerra civile spagnola. Morì sul lavoro, mostrando una resistenza eroica persino al proprio dolore. Stessa sorte toccherà a Robert Capa due guerre dopo, nel Vietnam che i francesi stavano cercando di riconquistare opponendosi a Ho Chi Minh.
Se la presenza di Gerda Taro in prima linea si può spiegare con la generale “chiamata” alla vita attiva in società delle donne, durante la seconda guerra mondiale e la relativa resistenza al nazifascismo, possiamo sempre fare un passo indietro fino ai primi decenni del Novecento, per scoprire – o meglio ricordare, nei casi più celebri che discuteremo – nomi femminili legati al fotogiornalismo. La Libreria del Congresso fornisce a tal proposito una collezione online piuttosto ben fornita di profili biografici e immagini scattate.
Tra le decine di autrici, figura anche Tina Modotti (Udine, 1896 – Città del Messico, 1942). Non che abbia bisogno di presentazioni, essendo tra le più famose fotografe di inizio secolo, ma può forse sorprendere vedere il suo nome in un elenco espressamente intitolato al fotogiornalismo. Della Modotti è di certo conosciuta la produzione artistica in senso stretto, e magari il contributo di Edward Weston alla sua carriera. A differenza di Gerda Taro con Robert Capa, però, la relazione professionale – e sentimentale – tra i due autori finirà proprio per il progressivo distacco della Modotti dagli obiettivi estetico-formalistici del suo mentore: dopo alcuni anni trascorsi assieme in Messico, lui tornerà in California nel 1926 e lei finirà per iscriversi al Partito Comunista l’anno seguente. Viene così sancito l’inizio del cosiddetto periodo “rivoluzionario” della sua produzione fotografica, coscientemente orientata a veicolare messaggi politici e sociali.
Scopriamo così che, già in tempi “insospettabili”, le donne erano attive e anche autonome in un ambito professionale ad alto rischio (se la Taro muore nel 1927, Tina Modotti viene esiliata dal Messico nel 1930 e smette di fotografare l’anno seguente). Di più, arriviamo ora a ipotizzare che sin da quel periodo le donne “fanno rete”. Proprio la Modotti ci conduce infatti dritti a Dorothea Lange. Le due si incontrarono a San Francisco, dove non c’era soltanto lo studio fotografico di Weston: anche la Lange si era stabilita nella città californiana, e con successo, dal 1918. Insieme a Imogen Cunningham, che già negli anni Dieci aveva scritto un articolo intitolato eloquentemente Photography as a Profession for Women, la Lange sarà tra le personalità che incoraggeranno Tina Modotti intorno al 1925, durante un suo breve ritorno a San Francisco, portandola a cercare con più convinzione la propria cifra estetica. E portarsi in Messico una camera Graflex, ovvero un corpo macchina più leggero e adatto alla straight photography.
Ma seguiamo ora le vicende della stessa Dorothea Lange, che della fotografia documentaria, e di denuncia, ha fatto la propria bandiera. Rispetto a Gerda Taro e Tina Modotti, la Lange potrebbe essere vista come una figura femminile più canonica, dal momento che non la troveremo mai sotto i bombardamenti né a documentare marce di protesta. È passata alla storia per uno scatto quale Migrant Mother, del 1936: il soggetto e la sua resa rispettosa, a debita distanza, ne hanno fatto un ritratto intimistico. Non dobbiamo però dimenticare quanto quell’immagine fosse radicata a una precisa tematica sociale, che Dorothea Lange stava documentando per l’opinione pubblica e su commissione dell’ente americano fondato per contrastare la povertà nelle zone ruralli, all’indomani della Grande Depressione. Anche lontano dal fronte e dalle “zone calde”, troviamo quindi una reporter impegnata a testimoniare condizioni di vita anche scomode. E questo intento di denuncia, che è ancora latente in questo lavoro, porterà la Lange a un contrasto diretto con il proprio “datore di lavoro” ovvero lo stesso governo degli Stati Uniti. Succederà dopo Pearl Harbour, nel dicembre del 1941, quando la fotografa sarà chiamata a documentare l’internamento dei giapponesi negli Stati Uniti – compresi coloro che avevano la cittadinanza americana – nei cosiddetti “campi di reinsediamento del periodo di guerra”. Dorothea Lange sceglierà di evidenziare, nelle sue fotografie, il contrasto tra la reazione composta e dignitosa degli internati e la loro effettiva condizione di carcerati, imprigionati senza essere accusati di alcun crimine: l’approccio dell’autrice non piacerà al governo, che deciderà di non divulgare le immagini nel corso della guerra pur avendole commissionate.
PER UN APPROCCIO FEMMINILE ALLA CRONACA?
Professionalità anche nell’accettazione del rischio, autonomia di giudizio, una visione etica del proprio lavoro: attraverso tre casi emblematici, abbiamo delineato sin dalle origini del fotogiornalismo moderno una sostanziale uguaglianza, se non in termini numerici, almeno qualitativi, tra reporter uomini e donne.
Che senso può avere, allora, parlare di fotogiornalismo al femminile? In prima battuta, proprio per “non tradire” la causa della parità di genere, verrebbe da rispondere che sì, chiaramente non cambia nulla, nell’approccio come negli esiti. Ma – e in questo ci aiuteranno due autrici del secondo Novecento – forse siamo maturi abbastanza, come società, da accettare che uguaglianza di trattamento non significa appiattimento delle differenze. Biologiche, ma anche culturali.
Arriviamo così a prendere in prestito alcune dichiarazioni di Letizia Battaglia (Palermo, 1935), che ha sempre rigettato la definizione – riduttiva, oltre che sensazionalistica – di “fotografa della mafia”, ribadendo come il suo impegno morale e professionale sia stato messo in ogni scatto, anche quelli che non ritraggono “quattro morti ammazzati, quattro mafiosi, quattro politici corrotti”. “Non è questo”, aggiunge subito dopo in un’intervista del 2016, riferendosi a un approccio complesso – e dagli esiti visivi differenziati – alla società. Uno sguardo, quello di Letizia Battaglia, che ci viene da definire “femminile” nel momento in cui fa ricorso volontario a un sentimento che la maggior parte dei cronisti uomini – because boys don’t cry, cantavano i Cure – non mostra di tenere altrettanto in rilievo, durante i propri reportage: l’empatia. Sempre nelle parole della fotogiornalista palermitana, anche documentando fatti di cronaca nera ci ha messo “tutto l’impegno e la serietà possibile, perché sentivo di dover rispondere sia alle istanze del giornale che alle mie. Non bastava fotografare, bisognava farlo con rispetto, con partecipazione”.
Un mutuo riconoscimento tra reporter e soggetto è forse quello che rende così penetranti, e allo stesso tempo scevri da qualsiasi curiosità vouyeristica, i ritratti in bianco e nero che la Battaglia ha dedicato ai bambini – e alle bambine, non dimentichiamolo – nei quartieri meno abbienti di Palermo: “Nella mia vita ho sentito più la povertà che la ricchezza, non ho fotografato i salotti e, quando mi è capitato, l’ho fatto con distacco. Io sto dalla parte dei deboli e se ho un mezzo per contrastare i cattivi lo uso”.
Un’affinità, una partecipazione emotiva che potremmo avere gioco facile nel definire “naturale” ovvero biologica, per una donna più che per un uomo. E che invece potrebbe avere una motivazione anch’essa culturale e sociale, pur partendo dal dato della differenza sessuale: in quanto donna, una fotogiornalista è essa stessa alle prese con forme di emarginazione e discriminazione più o meno evidenti. Lo fa notare ancora la Battaglia, ricordando il suo lavoro durante le faide mafiose degli anni Settanta (“In quegli anni com’era? Non ero credibile. Quando c’era un fatto di cronaca, un morto ammazzato così, la Rai passava, i fotografi maschi passavano, a me qualche poliziotto mi metteva la mano e mi impediva di passare”), lo ha raccontato in modo esplicito una reporter attiva tra la fine del Novecento e questi primi anni Duemila.
La statunitense Lynsey Addario (Norwalk – Connecticut, 1973) è un caso emblematico per chiudere questa nostra “ipotesi di controstoria del fotogiornalismo”: reporter per il New York Times, il National Geographic e il Time, nel 2015 è stata nominata dal American Photo Magazine come uno dei cinque fotogiornalisti più influenti degli ultimi 25 anni, per aver “cambiato il modo in cui guardiamo i conflitti bellici nel mondo”. Una fotografa di guerra, insomma, come lo erano Robert Capa e Gerda Taro; il paragone ci permette di comprendere immediatamente come le donne si siano sempre più affermate nell’arco di un secolo, all’interno di questa professione. Eppure, nello stesso anno in cui viene indicata tra i reporter dal contributo più significativo in mezzo secolo di storia, Lynsey Addario ha scritto sul New York Times un editoriale intitolato What Can a Pregnant Photojournalist Cover? Everything. Ricordando al suo pubblico non solo i conflitti che aveva documentato, ma le due volte in cui era stata catturata e tenuta in ostaggio da una o dall’altra parte in guerra; soprattutto, facendo notare che “i corrispondenti di guerra maschi avevano mogli o fidanzate ad aspettarli a casa”, mentre “la maggior parte delle donne rimaneva sola, inutilmente in cerca di qualcuno che potesse accettare la nostra devozione per il nostro lavoro”. A ribadire ancora l’esistenza di un doppio standard legato al genere, Lynsey Addario ci fa notare come, quando muore un reporter al fronte lasciando orfani i propri figli, a nessuno venga da chiedersi “cosa ci facesse in una zona di guerra”, mentre risulta ancora anomalo che una donna incinta possa recarsi in Somalia per svolgere lo stesso lavoro.
Partendo da queste premesse, altrove Lynsey Addario ha reso esplicito il legame tra la sua identità di genere e un fotogiornalismo altro: “Uomini e donne hanno accesso ad aspetti diversi di una società, ci rapportiamo alle persone su livelli differenti e queste ci rispondono di conseguenza, quindi sicuramente si crea una dinamica alternativa, ma non penso di vedere il mondo in modo differente in quanto donna. Si spera che quello che scelgo di catturare sia diverso da quello che fanno i miei colleghi maschi”. Una scelta di campo, quindi, che ha portato naturalmente – e culturamente – la Addario a concepire un bambino come a concepire il racconto della condizione femminile in altre parti del mondo, dal “volto che cambia” delle donne saudite alla mortalità materna tra le partorienti in Sierra Leone, dalle donne impiegate nelle missioni militari alla “ribellione velata” della popolazione femminile in Afghanistan dopo la caduta del regime talebano. Un fotogiornalismo forse più sensibile, certamente più “lento” e votato al long format dell’inchiesta; soprattutto necessario controcanto di un’informazione generalmente condotta a colpi di spot news.
– Caterina Porcellini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati