56. Biennale – Padiglione italiano
Codice Italia vuole riattraversare significative regioni dell’arte italiana di oggi, facendo affiorare alcune costanti: assonanze poco manifeste, corrispondenze inattese. Ripercorre rilevanti esperienze poetiche contemporanee, con l’intento di delineare i contorni di quello che, al di là di tante oscillazioni, rimane il fondamento del nostro “codice genetico” stilistico.
Comunicato stampa
"Immagine è ciò in cui quel che è stato
si unisce fulmineamente con l’ora
in una costellazione.
In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità".
Walter Benjamin
Gli artisti invitati nel Padiglione Italia alla Biennale Arte 2015 sono:
Alis/Filliol, Andrea Aquilanti, Francesco Barocco, Vanessa Beecroft, Antonio Biasiucci, Giuseppe Caccavale, Paolo Gioli, Jannis Kounellis, Nino Longobardi, Marzia Migliora, Luca Monterastelli, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Nicola Samorì, Aldo Tambellini.
Ovvero, protagonisti dell’Arte povera e della Transavanguardia (Kounellis, Paladino, Longobardi), grandi isolati (Parmiggiani e Gioli), eredi delle neoavanguardie del dopoguerra (Tambellini), personalità difficili da inscrivere dentro tendenze (Biasiucci, Caccavale, Aquilanti), voci tra le più originali dello scenario internazionale (Beecroft) e artisti dell’ultima generazione (Alis/Filliol, Barocco, Migliora, Monterastelli e Samorì).
Artisti accomunati dal pensare le proprie opere come luogo all’interno del quale si ritrovano a convivere desiderio di innovare i linguaggi e dialogo problematico con momenti salienti della storia dell’arte.
Questa idea viene declinata attraverso diversi media quali pittura, scultura, disegno, fotografia, video, performance, cinema.
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Vincenzo Trione
Codice Italia vuole riattraversare significative regioni dell’arte italiana di oggi, facendo affiorare alcune costanti: assonanze poco manifeste, corrispondenze inattese. Ripercorre rilevanti esperienze poetiche contemporanee, con l’intento di delineare i contorni di quello che, al di là di tante oscillazioni, rimane il fondamento del nostro "codice genetico" stilistico.
Pur seguendo strade differenti, molti artisti italiani del nostro tempo hanno proposto un’originale declinazione del concetto di avanguardia: per loro, essere d’avanguardia significa reinventare i media (per dirla con Rosalind Krauss) e, insieme, frequentare in maniera problematica materiali iconografici e culturali già esistenti. Pur se in sintonia con gli esiti più audaci della ricerca artistica internazionale, essi non aderiscono al nuovo come valore da idolatrare, né inseguono provocazioni. Ad accomunarli è la necessità di sottrarsi alla dittatura del presente, che è simile a una lavagna sulla quale una mano invisibile cancella senza posa avvenimenti sempre diversi. Coltivano in maniera più o meno intenzionale precise discendenze: i loro gesti racchiudono segreti rimandi alla storia dell’arte (dall’archeologia allo sperimentalismo novecentesco). Scelgono, perciò, di passeggiare tra le stanze di un passato che si insinua nell’attualità. Come un archivio di frammenti. Che si vogliono convocare. Qui. Ora.
Guidati dal bisogno di riaffermare il senso della continuità, questi artisti vogliono offrire un retroterra alle loro avventure linguistiche. Interrogano vestigia lontane, per dare maggiore forza al proprio timbro. Pur con accenti differenti, sapienti nel saldare canto e controcanto, riaffermano l’importanza di quella che potremmo definire the ecstasy of influence. Per loro, eseguire un’opera non è far nascere qualcosa dal niente, ma è strategia tesa a rimodulare cifre che sono state già create, fino a renderle irriconoscibili.
Animati dall’urgenza di guardare dietro di sé senza nostalgie, si richiamano alla memoria, intesa come arsenale di tracce da ri-abitare – e da reinterpretare. Territorio che tende a relegare il presente al rango di un rumore di fondo di cui non si può fare a meno. Scrigno da perlustrare – e tradire. Patrimonio decisivo. Infine, geografia dell’incertezza e della precarietà, che può alimentare domande ulteriori. Come una spirale, in cui si può liberamente andare avanti e indietro. Fare arte, per loro, significa porsi in ascolto di Mnemosyne. Che ci consente di appropriarci del divenire delle cose e, insieme, ci riconcilia con il loro scomparire.
Ad avvicinare queste voci è il bisogno di risituare proprio alcune figure della memoria. Le loro sono profanazioni: non innalzano la storia dell’arte sopra un piedistallo irraggiungibile, ma ne negano l’aura. Consacrano e sviliscono i modelli assunti. Smontano e rimontano episodi di altre epoche, per disporre le loro “rimembranze” all’interno di una discontinua trama. In bilico tra rispetto e trasgressione, elaborano discorsi aperti a sconfinamenti e a interruzioni, suggerendo una sintassi dominata da echi poco evidenti. In filigrana, le loro opere – affidate a diversi media – lasciano intravedere una complessa e articolata genealogia di rinvii. Si consegnano a noi, potremmo dire con Benjamin, come luoghi ibridi, “in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione”.