‘900 classico
MOSTRA IN TRE SEDI A ROMA.
Comunicato stampa
‘900 CLASSICO MOSTRA IN TRE SEDI A ROMA
Quando: dal 23 ottobre 2020 al 15 gennaio 2021
Orari: lunedì 16.00-19.00
martedì–venerdì: 10.00-13.00 e 16.00-19.00
sabato: 10.00-13.00
Dove:
Galleria del Laocoonte, via Monterone 13 – 00186 Roma
Galleria W. Apolloni, via Margutta 53B – 00187 Roma
Galleria del Laocoonte e W. Apolloni, Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81 – 00187 Roma
La scelta di occupare la Roma papale per farne la Capitale tanto simbolica che amministrativa della Nuova Italia, non ci è costato soltanto due onerosi traslochi – da Torino a Firenze, e da Firenze a Roma – ma ha fatto sì che ne venisse in gran parte influenzata la storia figurativa, architettonica e urbanistica tanto di Roma che del resto del paese. La “nuova” Roma era pur sempre la vecchia Roma dei Papi, e ad ogni passo chiavi e triregni, Santi e Madonne ricordavano ai “buzzurri”, ai nuovi italiani, di essere stati di fatto degli invasori e degli inquilini abusivi di regge, palazzi e conventi che erano stati del papa, della Chiesa e dei suoi Ordini. E’ per questo che l’oligocrazia che aveva fatto l’Italia ed ora cercava di amministrarla e penosamente ammodernarla, al di là delle divisioni politiche dei governanti tra loro, creò una religione alternativa a quella predicata dall’avversario, “quel di se stesso antico prigionier” (Carducci), l’autocrate chiuso in Vaticano, il pontefice romano che poteva vantarsi di quasi milleottocento anni di civiltà figurativa cattolica, dai primi sgraffi nelle catacombe agli affreschi allora contemporanei di Francesco Podesti in Vaticano, che celebrano l’Immacolata Concezione, voluti da Pio IX accanto a quelli di Raffaello. Il culto della Patria, la Monumentomania, e soprattutto la storia infinita dell’ambiziosa costruzione del Vittoriano, costituiscono nel complesso una tal mole di edifici, sculture e chilometri quadrati di pittura rapprese che non hanno pari in Europa prima delle colossali realizzazioni urbanistiche e ideologiche dei totalitarismi del XX secolo. Non deve sorprendere che il modello, lo stile a cui ci si richiamò, fu quello dell’antichità, poiché lo stile classico dell’antica Roma, non certo il gotico o il barocco, è l’unico repertorio a cui ci si poteva conformare.
Dunque in Italia ci furono dalla fine dell’Ottocento al 1943, due lunghe stagioni di neoclassicismo, quella dell’Italia dei Notabili, che va da Carducci a d’Annunzio, e quella che va dalla presa di potere del Fascismo alla sua caduta. Della prima, fa parte anche il culto di Roma mazziniano e repubblicano, che fu il primo restauratore del simbolo del fascio, passato poi come il testimone della staffetta al primo socialismo e infine strappato, di forza, dal fascismo per sé. La seconda stagione di revival antichizzante coincide con il Fascismo stesso, che riuscì a nascondere la natura moderna e violenta del suo colpo di Stato con la retorica, così come il cemento armato dei suoi palazzi è coperto di marmi e di simboli di Roma Antica e dell’Impero: Mussolini fu un Catilina vittorioso con indosso i panni di Augusto.
Queste pur diverse fasi politiche traevano entrambe una legittimazione dall’antico, non a caso ebbero a cuore i progressi dell’archeologia greco-romana che sotto Pio IX si era concentrata soprattutto, con gran successo di scoperte e propaganda di esse, sulle Catacombe dei primi cristiani. Gli scavi del Foro Romano e la scoperta delle memorie della Fondazione romùlea, sono davvero il controcanto laico di un’archeologia paganeggiante che diventò quasi una criptoreligione, con dispute, fanatismi e trionfalismi che una scienza non dovrebbe incoraggiare. Troppo lungo sarebbe enumerare le campagne di scavi, eseguiti quasi manu militari, nel ventennio fascista: l’Area Sacra di Largo Argentina, la ricomposizione dell’Ara Pacis, la “scoperta” del Mercato di Traiano, gli Scavi di Ostia, e quelli promossi nelle colonie, come a Rodi, in Albania, o in Libia a Leptis Magna, sono imprese che al di là di ogni possibile critica, suscitano meraviglia per l’entità dei lavori e la misura delle scoperte.
Come furono influenzati gli artisti italiani da tutto questo e quale corso ciò ha imposto allo sviluppo dell’arte italiana del Novecento è quello che si propone di evidenziare la mostra ‘900 CLASSICO, concepita e organizzata da Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, in ben tre sedi: nella Galleria del Laocoonte di Via Monterone 13-13A, nella Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B ed infine nel nuovo spazio espositivo contemporaneo che le unisce di Via Margutta 81, che si inaugurerà ospitando nel contempo la mostra antologica dello scultore contemporaneo Patrick Alò: MITOLOGIA MECCANICA, nelle cui opere i rifiuti della modernità tecnologica, i rottami di metallo, rinascono a nuova vita come opere di scultura neoclassica, tratte o ispirate dall’antico.
La fine della Belle Époque floreale italiana è qui rappresentata da Adolfo de Carolis (1874 – 1928), che prende in prestito un verso dell’Antologia Palatina per far nascere la sua Primavera, grande cartone preparatorio per un quadro che fu il suo manifesto estetico, anima greca in corpi michelangioleschi, uno stile tutto suo, ma perfetto per illustrare i centoni poetici di d’Annunzio. Un bozzetto con Minerva e l’Olivo, del 1914, è preparatorio per uno degli affreschi di De Carolis al Palazzo del Podestà di Bologna.
Floreale e klimtiano fu Giulio Bargellimi (1875 – 1936), artista semidimenticato, ma all’epoca sua frescante copiosissimo di Terme e Ministeri, qui presente in due cartoni dove la linearità vascolare arcaica in salsa jugendstil descrive un umanità bella e felice, degna di adornare un tempio, ma che fu dipinta invece per lo scalone delle Assicurazioni Generali.
Pittorico e decadente fu agli inizi della sua carriera di scultore fu anche Libero Andreotti (1875 – 1933) qui rappresentato da ben quattro opere: una rara e inedita Baccante con bacchino ubriaco, scolpita in marmo di Candoglia, il bassorilievo in bronzo de L’Ulivo, in cui le fronde dell’albero sacro ad Atena generano corpi umani, poi ancora la più classicheggiante Veneretta, e infine la Venere Fortuna, che in equilibrio sulla sua minuscola conchiglia, con una vela gonfia di vento tra le mani, allunga le sue forme arcaiche imitate dai bronzi di scavo, quasi fosse un reperto ella stessa.
E’ del 1911 il grande dipinto di Vittorio Grassi (1878 – 1958), con I Dioscuri del Quirinale fluorescenti nella notte, illuminati solo dallo stellone d’Italia. Servì di bozzetto al concorso per il manifesto della Esposizione universale di Roma, ma arrivò secondo: fu scelto come manifesto ufficiale quello di Duilio Cambellotti (1876 – 1960). Quest’ultimo fu un artista poliedrico, scultore pittore, scenografo, ceramista, incisore e medaglista. Cambellotti aveva già, in questo scorcio di secolo, rivisitata tutta l’antichità, inoltrandosi a pensare anche a Micene e al Lazio delle origini per inventarla di nuovo, in linee moderne ed essenziali. Fu lui, socialista, pacifista e umanitario a mettere su carta per primo fasci, aquile e leoni che saranno poi il repertorio simbolico del fascismo. Il suo ciclo de Le Leggende Romane, prima dipinte a biacca e poi incise in xilografia, furono un lavoro che durò una vita, e furono pubblicate postume. Sono qui rappresentate da numerosi disegni preparatori e rare tirature d’autore. Il suo bronzo meraviglioso, La Corazza, dove un antico agricoltore dell’ager romanus veste l’armatura per difendere la Patria, segna quel momento storico, dopo Caporetto, in cui la Grande Guerra imposta dagli interventisti divenne guerra di popolo e di sopravvivenza, e stilisticamente riesce ad unire, in compendio perfetto, l’essenzialità dei bronzi etruschi con le linee moderne e aereodinamiche della scultura futurista. Nei manifesti per il Teatro Classico di Siracusa vi è la stessa unione di antico e moderno, mentre in una delle rare tavole in cui nell’ultimo dopoguerra Cambellotti volle illustrare la Storia di Roma del Gregorovius svetta intatto il Caballus Constantini, cioè la statua equestre di Marco Aurelio, in mezzo alle rovine del Laterano medioevale. In ultimo, i disegni preparatori per i manifesti di Fabiola (1949), il primo peplum girato nella nuova Repubblica Italiana, che permise la rinascita di Cinecittà inaugurando la stagione d’oro degli anni ’50 e ’60.
Arcaismo, antichità barbarica, ma anche neoclassicismo fascista trasfigurato in sogno utopico sono tra le tante idee ispiratrici di un grandissimo artista come Mario Sironi (1885 – 1961), di cui qui si presentano undici opere su carta, privilegiando il Sironi illustratore e cartellonista, come nello studio del manifesto immaginato per l’autarchica pellicola Scipione l’Africano, una copertina per Il Natale di Roma del 1937 ed altri fogli dove Sironi è non solo pittore murale, ma anche inventore delle architetture e delle sculture di un intero edificio, come nel caso del Palazzo dei Giornali di Milano.
Diverso il caso di Gino Severini (1883 – 1966), già futurista, poi sognante inventore di pulcinelli e arlecchini pierfrancescani, che riapprodò a Roma da Parigi per reinventare i mosaici bianchi e neri scoperti a Ostia dagli archeologi e che il fascismo volle simili per il Foro Italico e l’Eur. Qui si espongono disegni preparatori per la Palestra del Duce, per il Viale del Monolite e in due composizioni per una fontana dell’Eur dove Flora e Silvano, antiche divinità latine, rivivono come maschere vagamente picassiane. Preparatori per la Fontana Luminosa dell’Eur sono anche i cartonetti realizzati da Giovanni Guerrini (1887 – 1972), tra gli inventori del Colosseo Quadrato, che illustrano la storia di Roma antica sul mare, tra sirene, tritoni e fiamme distruggitrici dell’iniqua Cartagine. Sempre per i mosaici del Foro Italico sono anche i disegni del meno noto Achille Capizzano (1907 – 1951), pittore e frescante, che lavorò principalmente per l’architetto Luigi Moretti. Un disegno di Giorgio Quaroni (1907 – 1960), pittore e scultore, fratello del più famoso architetto Ludovico, è preparatorio per l’affresco La fondazione di Roma, che fu fatto per la Sala Riunioni del palazzo degli Uffici dell’Eur. Riecheggia la pittura romana antica, trasformando quei paesaggi illusionistici che sfondavano le pareti affrescate delle ville in un teatrale sipario dipinto.
Un artista onirico e personalissimo come Ferruccio Ferrazzi (1891 – 1978) sembrerebbe lontano dalle reinterpretazioni dell’antico del Ventennio, ma il mosaico colossale da lui realizzato per la piazza Augusto Imperatore con il Dio Tevere e i Gemelli, circondato dalle maggiori divinità latine è una delle più felici e sorprendenti creazioni del periodo: di quest’opera sono esposti gli smisurati cartoni dipinti a tempera che rappresentano Vulcano e Cerere, e un piccolo disegno che rappresenta la prima idea de Il Tevere con i gemelli e la Lupa.
Tra i pittori muralisti, che negli anni trenta vollero far rivivere l’arte italiana dell’affresco monumentale, oltre a Sironi che fu promotore del manifesto del 1933, furono Cagli, Campigli, Carrà, e Achille Funi (1890 – 1972). Quest’ultimo fu frescante prodigioso per qualità e quantità, a Roma, Milano, Bergamo, Ferrara e Tripoli di Libia. Di Funi sono in mostra un cartone per la sala virgiliana della Triennale di Monza del 1930, con Didone e Anna, e due cartoni di Legionari Romani eseguiti per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa di questo nome in via Torino a Milano. Oltre a questi vi sono il dipinto Venere Latina, ovvero Il nudo e le Sculture, del 1930, statua che si fa carne, sogno di Pigmalione realizzato ad olio. Di Funi ancora oltre ad una Lucrezia romana a olio, classica e tizianesca insieme, vi è infine un pannello monumentale dipinto a tempera su fondo oro, lungo quasi cinque metri, che egli fino alla morte tenne nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco: si tratta de Il Parnaso, con Apollo e le nove Muse, che ha l’aria d’una miniatura rinascimentale ingigantita o d’una pittura parietale pompeiana dipinta su stagnola dorata, come il coperchio di una ciclopica scatola di cioccolatini.
Smisurato è anche il cartone preparatorio che Alberto Ziveri (1908 – 1990) colorò nel 1943 per il mosaico dell’atrio nell’Accademia dei Vigili del Fuoco di Roma, dando vita colossale ad una Dea Minerva ed anche un po’ Dea Roma – che pare fare il verso alla potente grossolanità dei mosaici tardo antichi, ma con la carnalità statuaria e plebea che il pittore tanto efficacemente sapeva rendere prendendo le sue modelle dalla strada.
Corrado Cagli (1910 – 1972) è rappresentato da un perfetto encausto – emulazione dell’antico – simbolico de La notte di S. Giovanni che a Roma fino a poco tempo fa era evento carnevalesco legato al solstizio d’Estate, e, al tempo di Roma antica, “grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”, come ha scritto Plinio il Vecchio. All’orizzonte, come in una pittura compendiaria antica, si stagliano i monumenti di Roma antica e moderna, da S. Pietro ai Dioscuri del Quirinale, passando per il Foro dove le colonne del Tempio di Vespasiano tremolano come in un miraggio.
Più complesso è il nodo emotivo e culturale che ha generato in Corrado Cagli lo studio del Laocoonte, tratto dall’antico e da El Greco, in cui l’ossessione di giovani corpi stritolati dalle spire dei serpenti è simbolo di un tormento esistenziale, dove si mescolano tanto la condizione della propria omosessualità, che il nuovo clima creato dalle leggi razziali che costrinsero l’artista, divenuto doppiamente “diverso”, all’esilio dall’Italia. Lo stesso tema, in Mirko Basaldella (1910 – 1969), giovane “creato” di Cagli, allievo a lui succube tanto nello stile e nella vita affettiva, diventa una riflessione sul tema del biblico Serpente di Bronzo: anche qui corpi adolescenti e serpenti si torcono, in una visione che è fantasia erotica e tortura infernale ad un tempo, eseguita in bronzo, in bassissimo rilievo, ispirato allo “stiacciato” rinascimentale di Donatello.
La scultura in mostra è variamente rappresentata. Di Publio Morbiducci (1889 – 1963), modernamente antico, vi sono due modellini dei cavalli che dovevano comporre La Quadriga sulla facciata del Palazzo dei Congressi all’Eur, e i due bozzetti in bronzo dei di Romolo e Remo con cavalli, che sarebbero dovuti sorgere accanto al Palazzo della Civiltà Italiana e che furono pio cambiati in Dioscuri. Sempre di Morbiducci è un gruppo di disegni raffiguranti Panoplie che al repertorio antico de I Trofei di Mario aggiungono mitragliatrici e obici e altre diavolerie della moderna guerra.
Tra le opere più straordinarie e singolari presenti in mostra sono invece due vasi di bronzo dalla patina volutamente archeologica dello scultore Mario Ceconi di Montececon (1893 – 1980). Ispirati certamente ai modi arcaizzanti e caricaturalmente divertiti di Arturo Martini (1889 – 1980), celebrano allegoricamente la Conquista dell’Etiopia del 1936, animando in uno una Lupa Romana che mette in fuga un Leone di Giuda della Dinastia Salomonica, e nell’altro un’Italia Armata trionfante sullo stesso disgraziato leone etiope sdraiato a gambe all’aria. Singolare che alle forme derivate dai bronzi archeologici l’artista scelga di sposare quelle naturali delle piante grasse del deserto, fornendo degli ibridi in cui la retorica trionfalistica imperiale fascista pare colorarsi di effetti comici.
Del 1948 è la terracotta colorata di Antonietta Raphael (1895-1975), proveniente dalla Collezione Scheiwiller, che raffigura Leda e il Cigno, in cui il mito greco è svolto nelle forme primitiveggianti di un Gaguin, mutando uno degli amori di Zeus in una leggenda tahitiana.
L’influenza dei bronzi antichi di origine etrusca, della ritrattistica repubblicana antica, esercitarono una forte influenza sugli scultori italiani del Novecento, ed ottenne l’effetto di eroizzare le fisionomie contemporanee, toccando anche il ridicolo nel caso di Mussolini o di vittorio Emanuele III. Qui compaiono un Giuseppe Bottai di bronzo di Quirino Ruggeri (1883 – 1955), un ritratto di Enrico Corradini, vecchio rottame del nazionalismo italiano, reso degno del Sepolcro degli Scipioni. Un anonimo bronzo, maggiore del vero, restituisce il carisma di Dino Grandi, mentre un sorprendente bronzo di Francesco Messina (1900 – 1995) ci mostra uno ieratico ed ascetico Indro Montanelli quarantenne. Del giovane Emilio Greco (1913 – 1995) infine, non ancora prigioniero del suo stile, una Testa d’Uomo, del 1947, restituisce in cemento levigato lo spirito antiadulatorio dei severi romani della Repubblica.
Un monolite di gesso nero come un bucchero, già in una sala di uno dei nostri transatlantici di lusso, simbolico de Gli Elementi, è opera di Marcello Mascherini (1906 – 1983), grande scultore del nostro Novecento che meriterebbe maggior fama di quella che egli gode nella sua città di elezione, Trieste.
L’antico però non è solo severità repubblicana o rigidità marziale da parata, lo spirito greco e i paradossi di Luciano di Samosata, hanno ispirato anche un’antichità surreale, che va dal giocoso all’allucinatorio, lungo una vena ispirata dall’arte metafisica di Giorgio De Chirico, greco di nascita, italiano per sangue e böckliniano per formazione. Innanzitutto va ricordato suo fratello Alberto Savinio (1891 – 1952) qui presente in un disegno, Le départ de l’enfant prodigue, dove teste d’animale s’innestano su corpi statuari. Alcune delle sue più felici creazioni dipinte, Centaurina, Torna la Dea al Tempio, Orfeo Vedovo, sono qui presenti nelle fedeli riproduzioni prodigiosamente eseguite a ricamo su tela da sua moglie Maria Savinio (1899 – 1981)che fu in quest’arte devota Penelope anche quando il marito partì per quell’Odissea da cui nessuno torna. Metafisico, giocoso e devoto all’antico a tal punto da diventare un gran collezionista di reperti etruschi ed egizi, fu Eugene Berman (1899 – 1972), russo espatriato a Parigi, negli Stati Uniti e infine a Roma: di lui tre visioni classiche per ispirazione e soggetto, Il Cavallo di Troia, Edipo e la Sfinge, Ulisse e le Sirene, che servirono nel 1962 per spiegare sul rotocalco Life i miti greci agli americani.
Capace di trasformare in gioco il suo straordinario talento di scultore e plasticatore, fu Andrea Spadini (1913-1983), a cui la Galleria del Laocoonte, per cura di Monica Cardarelli ha già dedicato una vasta mostra antologica che sarà prossimamente presentata in Inghilterra. Spadini era capace di fare il verso all’antichità come al barocco del Bernini, con esiti quasi disneyani quando trasformava i suoi animali di ceramica, fatti per i trionfi da tavola per divi di Holywood e aristocratici jet-setters, in giocolieri e musicisti. Qui si espongono due versioni de Il Tevere, raffigurato come un indolente imperatore sdraiato su una barca di Nemi come su un’amaca, in argento massiccio, con una testa degna d’un Caligola di periferia, oppure con una testa d’aquila romana, rapace e gallinaceo ad un tempo, nella versione in ceramica, nera come il neoclassico basalto di Wedgwood.
Allucinato dall’archeologia come materiale di sogno di civiltà perdute, è stato anche Fabrizio Clerici (1913 – 1993), di cui la Galleria del Laocoonte già ha presentato nel 2017, a Bologna e a Roma, i disegni originali per “Alle cinque da Savinio”, omaggio dell’anziano Clerici all’antico maestro e mentore della sua gioventù. Su Clerici la galleria sta organizzando una mostra retrospettiva e antologica per ricordarne l’ineffabile figura di elegante Don Chisciotte del Surrealismo più raffinato, viaggiatore in Egitto e Medio Oriente delle cui antichità è stato, con gli occhi e con l’eleganza del suo disegno, un instancabile razziatore. Della sua opera si anticipa qui la Minerva Flegrea, in cui la Dea di Butrinto si specchia sopra al bradisismo di Pozzuoli, un paesaggio egizio, un mostro saltato fuori dalle pagine del Satyricon di Petronio ispirato ai compositi “grylloi” incisi sulle gemme antiche di cui tanto ha scritto Jurgis Baltrušaitis nel Medioevo Fantastico. Due versioni de La Luce di Lessing, mostrano infine il gruppo del Laocoonte ridotto ad un contorno di assi di legno rozzamente tagliate come nelle opere di Ceroli. Con questo doppio omaggio all’opera statuaria antica che alla Galleria ha dato il nome ed un programma estetico la mostra può dirsi conclusa. Il gruppo monumentale del Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587) tornerà al centro della Galleria di Via Monterone a novembre, reduce dalla mostra di Forlì dedicata all’Odissea dov’è stato tra le maggiori attrattive. Per ora il suo posto è occupato da Il Laocoonte di Patrick Alò, straordinario ammasso di ferraglia, composta ad arte a ripetere la torsione dolorosa e il grido dell’antico sacerdote troiano simbolo universale della sofferenza umana.