À bout de souffle
Il titolo dato alla mostra è ripreso da un famoso film di Jean-Luc Godard del ‘60, À bout de souffle. In apparenza esso ha la struttura di un poliziesco, ma al regista non interessa il tradizionale racconto cinematografico, quanto invece il sovrapporsi di mille trovate, citazioni, allusioni che propongono una nuova e spiazzante storia.
Comunicato stampa
Paso doble. Un passo a due. Un duetto. Un’artista che balla in punta di pennello e l’altro “in punta” d’obiettivo. Elisabetta Vignato (Padova, 1964) e Gianluca Capozzi (Avellino, 1973). Entrambi attratti dal paesaggio e dalla sua vertiginosa potenzialità immaginativa. Ma con uno sguardo che va oltre la pura e semplice rappresentazione di una natura bella, sublime o pittorica. Per assumere invece il mondo come strumento per fare nuove esperienze estetiche e concettuali.
Il titolo dato alla mostra è ripreso da un famoso film di Jean-Luc Godard del ‘60, À bout de souffle. In apparenza esso ha la struttura di un poliziesco, ma al regista non interessa il tradizionale racconto cinematografico, quanto invece il sovrapporsi di mille trovate, citazioni, allusioni che propongono una nuova e spiazzante storia. Ebbene, anche nella pittura della Vignato o nelle foto di Capozzi non siamo mai di fronte ad una scena che procede passo passo, fino al cuore del problema (della visione), ma a una scena che si confonde con altre scene (vestigia, colori, immagini). In qualche modo, i due artisti rendono visibile una realtà che non può essere né descritta né percepita oggettivamente, in quanto insituabile, sfuggente, fantasmatica. Se si osserva qualche tela della Vignato si ha l’impressione che la pittura superi ogni idea di limite, per darsi come materia in espansione. Mai definita in se stessa, ma perennemente in movimento, quasi volesse offrire uno spostamento della visione nel suo stesso farsi. E quando nei piccoli quadri recenti viene impiegato anche il “collage”, l’immagine sembra letteralmente frantumarsi, mostrare una struttura elastica, aperta, multiforme. E’ come se l’artista tentasse di concentrare in un unico punto molti punti di vista o far sorgere in un’unica immagine una pluralità di immagini.
Gianluca Capozzi, 2014, matite colorate, pennarello, acrilico su foto, digitalizzata e stampata su plexiglas
Gianluca Capozzi si affida invece alla presunta fedeltà dello scatto fotografico. Ma la riproduzione pura e semplice gli pare troppo fredda e troppo pura. E allora la inquina con leggeri interventi segnici o con qualche macchia di materia lisa e rotta. E’ un modo per tradurre un’idea di natura sempre più compromessa e guastata, ma anche per trasformare la fissità della foto in qualcosa di mobile e di sensibile. L’ultimo intervento è quello di stampare su plexiglas sia la foto di partenza che i successivi ritocchi, come a mantenere l’immagine in una dimensione sospesa, tra un’atmosfera familiare e un disturbo senza nome.
Infine il video Fireworks, sempre di Capozzi (nello spazio underground della galleria): esso appare come un interminabile spettacolo di luci che nascono da altre luci, di rumori che riempiono il silenzio. E’ il mistero della creazione che si perpetua, tra il grandioso e l’effimero, l’eterno e il mutevole. Un inesausto nascere e morire, senza un vero perchè, come accade nel film di Godard. (Luigi Meneghelli)