Accardi | Capogrossi | Reimondo – Bianco nero colore chiuso aperto
Mazzoleni presenta a Torino la mostra dedicata alle ricerche tra forma e linguaggio di tre artisti che, percorrendo strade diverse, hanno esplorato il ricorso ad elementi segnici in grado di evocare – o condensare – in oggetti tangibili significati e riferimenti simbolici rilevanti.
Comunicato stampa
L’utopia di una lingua perfetta non ha ossessionato solo la cultura europea. Il tema della confusione
delle lingue, o il tentativo di porvi rimedio grazie al ritrovamento o all’invenzione di una lingua comune
a tutto il genere umano, attraversa la storia di tutte le culture.
(Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza 1993)
Mazzoleni presenta a Torino la mostra dedicata alle ricerche tra forma e linguaggio di tre artisti
che, percorrendo strade diverse, hanno esplorato il ricorso ad elementi segnici in grado di evocare – o
condensare – in oggetti tangibili significati e riferimenti simbolici rilevanti. Nelle opere di Carla
Accardi (1924 - 2014), Giuseppe Capogrossi (1900 - 1972) e David Reimondo (Genova, 1973)
il segno assume senso e valore non solo per le comunità e il momento storico per le quali sono stati
prodotti, ma - travalicando i limiti temporali – assurge a valore universale sia sul piano materiale
che sul piano simbolico.
Le origini artistiche di Carla Accardi affondano nell’Italia appena unificata del 1946, profondamente
segnata nella scena culturale dalla disputa tra figurazione e astrazione.
La dialettica formale/informale incontra nell’arte di una giovane Accardi - unica donna firmataria del
Manifesto Forma 1 nel 1947 - un universo interiore e uno sguardo all’internazionalità, all’arte
francese, americana, ma anche orientale ed egizia. Ne deriva una relazione tra visione e vissuto che
prende le forme di raffinati incastri di positivo e negativo. Nei suoi dipinti degli anni Cinquanta,
Accardi rovescia la tradizione scrittura visiva, non più il nero su bianco, ma il bianco su nero, operando
un capovolgimento delle gerarchie formali e cromatiche.
Negli anni Settanta, il movimento libero del segno, arricchitosi di colore e frutto di una complessa
elaborazione estetica, si trasforma in moduli che scandiscono e suddividono la superficie dell’opera,
come in Scacchiera verdeoro (1974). Qui l’intreccio sinuoso delle linee prende la forma di una
scacchiera narrativa, che alterna ancor più esplicitamente il positivo al negativo. A partire dagli anni
Ottanta e nei decenni successivi, il movimento della linea e del segno torna a farsi inafferrabile, note
cromatiche più fresche si alternano ad un’assenza della pittura, la tela grezza (Fonda Notte, 1988),
l’intreccio delle campiture cromatiche diventa più gotico, quasi danzante (Argento su cobalto, 2005):
“le trasformazioni delle mie opere sono il risultato di un fiume di pensiero, appartenente alla mia
epoca, che sentivo venire in superficie” (Accardi, 1986-87 in Germano Celant, 1997, p. 408).
Di una generazione precedente rispetto a Carla Accardi, Giuseppe Capogrossi muta il registro della
sua ricerca, dopo una prima fase figurativa e poi neocubista, proprio sul finire degli anni Quaranta.
Nel gennaio 1950 espone alla galleria del Secolo di Roma le sue Superfici, in cui compare per la prima
volta il segno che sarebbe diventato la sigla emblematica di tutta la sua produzione successiva.
Il segno incontra lo spazio della superficie in una dialettica di bianco e nero giocata in una rigorosa
bidimensionalità. Da qui la nascita di una struttura segnica ripetuta, sempre uguale a se stessa, ma
tracciata liberamente e proposta in diverse combinazioni grafiche e cromatiche, ogni volta
caratterizzate da ritmo, tratto e definizione differenti.
Da Roma, il segno dentato di Capogrossi, misterioso alfabeto di una lingua sconosciuta, approda
con il suo strascico di dibattito critico prima alla galleria Il Milione di Milano, poi a Venezia alla galleria
del Cavallino e alla Biennale e nei primi anni Cinquanta sulla scena artistica europea e americana
giungendo all’attenzione della critica internazionale. “I singoli segni rimandano, soprattutto quando
disposti in serie, ad alfabeti di lingue che non siamo in grado di interpretare, anche quando l’aspetto
di ordine e sequenza è così forte da evocare la presenza di un significato”. (Roland Penrose, 1957)
L’andamento sequenziale delle concatenazioni di segni suggerisce quello della scrittura o delle
partiture musicali, il colore interviene dapprima come elemento di pausa come in Superficie 127 del
1955, per poi conquistare gran parte dello spazio pittorico e interagire sullo stesso piano del continuum
segnico (Superficie XXX, 1962).
“Nuovi linguaggi determinano la nascita di nuovi mondi”.
La creazione di nuovi linguaggi che raccontino attraverso il ricorso al simbolo la complessità del
pensiero umano è uno dei punti d’approdo del lavoro di David Reimondo.
Etimografia (2014-2018) è un macro-progetto che vede l’artista impegnato nella creazione di ‘simboli’
che approdano alla produzione di nuovi grafemi e fonemi. Sculture in legno colorate con inchiostro
nero per stampanti vivono in continua aggregazione e disgregazione come cellule modulari che
scardinano le “gabbie iconografiche” che ci appartengono.
Questi esercizi di de-addestramento culturale nascono dal gesto artistico, disegni tracciati a mano e
trasformati da Reimondo nello strumento che permette di non essere condizionati dai retaggi secolari
che hanno formato – e formano – l’essere umano, la sua lingua e, dunque, la conoscenza.
Nelle due opere Video calligrafia (2019) e Atto di Pensiero (2017) la simbiosi e la dualità tra segno –
natura, corpo – pensiero, tangibile – immateriale vengono esplorate da Reimondo anche nel gesto
artistico: attraverso l’uso di medium diversi proiettati, digitalizzati, ma anche ritagliati a mano
dall’artista, o da lui costruiti con millimetrica precisione, le opere sono potenti esperienze che
ingaggiano lo spettatore su vari livelli fisici e cognitivi.
La correlazione tra esperienza cognitiva e sensoriale raggiunge la massima intensità in La materia del
significato (2021). Cotone, polistirolo, carta, piume, zucchero, vetro, quarzo, corallo, oro, lana, stoffa,
pigmento, marmo sono solo alcuni degli elementi che compongono i quaranta simboli che danno forma
alla riflessione dell’artista sull’individuo, compiendo una simbiosi tra pensiero ed espressione formale.
MAZZOLENI
Mazzoleni è una delle principali gallerie italiane d'Arte Moderna e Contemporanea con sede a Londra e Torino, attiva da oltre
35 anni. Mazzoleni presenta mostre di calibro museale e partecipa alle principali fiere internazionali di settore nei circuiti Art
Basel, Frieze, TEFAF; Artissima, Artefiera e Miart in Italia e di recente aprendosi a nuove realtà collezionistiche quali Frieze
Seoul, Art Abu Dhabi e Art Dubai.
La collezione della galleria viene esposta in musei e istituzioni in tutto il mondo, come il Centre Pompidou e il Palais de Tokyo
a Parigi, la Fondazione Solomon R. Guggenheim di New York, la Smithsonian Institution di Washington, lo State Ermitage
Museum di San Pietroburgo, la Tate Gallery e l’Estorick Collection di Londra, il Museo del Novecento di Firenze, la GNAM di
Roma, il Museo MADRE di Napoli, la Triennale e Palazzo Reale di Milano e la Biennale di Venezia in Italia.
La galleria rappresenta l’Estate Agostino Bonalumi.