Afran – L’abito e’ il monaco
Il jeans e’ per Afran il simbolo della globalita’, in mostra una raccolta di sculture raffiguranti testi e corpi umani, pianeti, cubi componibili e tele ricoperti tutti di jeans.
Comunicato stampa
Siamo giunti al terzo appuntamento relativo al calendario 2011-2012 delle esposizioni del Museo G. Gianetti.
Questa volta verrà inaugurata una mostra di un giovane artista Camerunese fortemente legato alla Fondazione COE, Centro Orientamento Educativo, della quale il Museo G. Gianetti ne fa parte.
Il suo nome è Francis Abiamba, in arte Afran, nato a Bijap, in Camerun nel 1983.
Dopo aver frequentato l’IFA, Istituto di Formazione Artistica, di di Mbalmayo, prima scuola d’arte in Camerun progettata e sostenuta dal COE, si diploma in ceramica.
Coltiva la pittura, sua grande passione, presso gli atelier dei più grandi pittori camerunesi e congolesi. Nel 2006 si apre all’arte contemporanea grazie a Salvatore Falci, professore di arti visive dell’accademia di Belle Arti di Carrara (BG).dopo numerosi concorsi ed esposizioni collettive, nel 2008 presenta la sua prima personale al Centro Culturale Spagnolo di Bata, in Guinea equatoriale, aprendo la porta ad una serie di esposizioni tra Guinea Equatoriale ed Italia, dove ora risiede.
Il Museo Gianetti, che già in passato ha dato l’opportunità ai più meritevoli giovani artisti Africani di esporre negli spazi temporanei, creando un collegamento con la Fondazione COE e con tutti i suoi progetti legati al territorio africano, quest’anno presenta “L’ABITO E’ IL MONACO”, il nuovo progetto del pittore-scultore AFRAN.
“L’ABITO E’ IL MONACO” è una raccolta di sculture raffiguranti testi e corpi umani, pianeti, cubi componibili e tele ricoperti tutti di jeans.
Il jeans è per Afran il simbolo della globalità, della omologazione. In questo caso il tessuto non è sinonimo di libertà, ma diventa portavoce della mancanza di un’identità individuale e di conseguenza di originalità.
Chiariscono meglio le parole del giovane artista: “Nella collezione L’abito è il monaco, l’apparenza diventa sostanza, entra nel modo di vestirsi, nella mentalità, nel modo di fare, nel modo di essere; entra nelle spaccature, nelle fenditure, nelle aperture, nei pertugi più profondi e intimi. Entra e si installa visceralmente, attinge le sue energie dall’ospite fino a consumarlo e a sostituirsi ad esso, come in una metamorfosi. L’abito sfratta il monaco per prendere il suo posto, lasciandogli l’illusione che la libertà consiste nell’avere il potere economico, sociale, decisionale di seguire quanto viene globalmente pubblicizzato e commercializzato senza indugiare in dettagli spazio-temporali. Il jeans rappresenta appunto questa globalità, nella quale ci affanniamo instancabilmente per cercare un’originalità individuale, un’identità che ci ostiniamo a non credere perduta, come se la metamorfosi non riuscisse mai a raggiungere l’ultimo stadio”.