Agorazein 2011
La Rassegna Internazionale di Videoarte Agorazein 2011, alla sua seconda edizione, mutua questa disposizione trasponendola nella creatività, presentandosi come “agorà” dove è possibile andare in giro a curiosare nella videoarte internazionale, in quello che succede dall’Albania al Kazakhstan, all’Afghanistan, alla Romania, all’Italia.
Comunicato stampa
Agorazein è un termine che in greco antico significa più o meno andare in giro a curiosare, o meglio recarsi in piazza per vedere che si dice. Attitudine e atteggiamento tipici degli ateniesi del VI secolo a. C., tramandati anche da Platone nei Dialoghi.
La Rassegna Internazionale di Videoarte AGORAZEIN 2011, alla sua seconda edizione, mutua questa disposizione trasponendola nella creatività, presentandosi come “agorà” dove è possibile andare in giro a curiosare nella videoarte internazionale, in quello che succede dall’Albania al Kazakhstan, all’Afghanistan, alla Romania, all'Italia.
Ad accogliere questo melting pot visuale un’affascinante location che contribuisce all’esaltazione delle sensazioni, le antiche Cisterne Romane scavate sotto la piazza centrale di Todi (ancora un’agorà...). Un luogo dalla forte identità radicata nella civiltà classica, che esalta stimoli, spiritualità e sensibilità di civiltà supercontemporanee marcatamente tecnologiche.
Una specie di paradosso prossemico, nella cui congerie la rassegna – come evidente fin dal sottotitolo, Rambling roots – inserisce una riflessione sull’attuale interpretazione “liquida” dell’idea delle radici. Riflessione che finisce con l’inserire un altro paradosso, stavolta logico: perché il medium tecnologico per eccellenza, globale e indifferenziato – la videoarte -, si rivela il più efficace nell’operazione di recupero identitario, in quel sussulto di fierezza e in quella rivendicazione di unicità che la cronaca continua a metterci davanti agli occhi con le sommosse mediterranee. La rivincita dell’individuo e della sua storia, che è una delle facce di quella glocalità focalizzata da Zygmunt Bauman.
Il mio pensiero viaggia grazie a un mezzo etereo e veloce, ma a lui affido il mio orgoglio personale, etnico, nazionale: questo pare emanare dal lavacro simbolico di White house, dell’afghana Lida Abdul (vincitrice nel 2006 del Premio Pino Pascali). Fra le macerie di Kabul si può cercare quella tabula rasa – il bianco, catartico –
sulla quale costruire un destino, e sono le donne (tema ricorrente nella rassegna) a farsi carico della metabolizzazione del passato. Accade con Jihad, della kazaka Almagul Menlibayeva: una giovane donna “gioca” con il suo velo, e sullo sfondo c’è la seconda Mecca del Medio Oriente, il mausoleo di Khadzha Akhmet Yassavi. “In Oriente – spiega la stessa artista - l'immagine di una donna velata ha una moltitudine di significati, dalla bellezza alla sottomissione, dalla debolezza alla protezione. In questa performance il velo vuole simboleggiare il nostro intelletto. Una donna che gioca con le condizioni dell’intelletto. Ogni frame si conclude con un colpo secco del velo contro la macchina da presa, come uno schiaffo in faccia…”.
Legami, vincoli, tradizioni, radici – per non perdere il filo - persistenti che pesano sull’ansia emancipatoria, ma che nella giusta sintesi rappresentano quel patrimonio “genetico” che è la forza del popolo post-globale del terzo millennio. Ed ecco allora Alisa and Sarah, le bambine del video dell’albanese Alban Hajdinaj, che giocando in giardino recitano a memoria versetti del Corano come fosse un qualsiasi scioglilingua, ridendo l’una agli errori dell’altra. È quasi inquietante invece il bambino protagonista di Choose, del rumeno Ciprian Muresan, che con fissità quasi metafisica ma con beffardo candore si “beve” uno dei paradigmi del global, la competizione fra Coca e Pepsi: è inutile che sgomitiate, ormai io sono cresciuto, per me non siete altro che qualcosa di dissetante…
E in Italia? Rintracciare radici italiane è difficile – o forse inutile, come da celebre aforisma giolittiano? -, e allora meglio concentrarsi sulle radici dell’italianità. Come fa il gruppo Alterazioni Video - presente nel 2007 alla 52a Biennale d’Arte, e nel 2010 alla 12a Biennale d’Architettura di Venezia -, con un lavoro di indagine e mappatura su un aspetto che arriva a contraddistinguere il paesaggio nostrano, le opere pubbliche incompiute, disseminate lungo il territorio nazionale. E tra ironia, provocazione e approccio concettuale Incompiuto Siciliano – il video proposto - giunge a conferire dignità di opere d’arte ai vari “incompiuti” rintracciati nel territorio, individuando un vero e proprio “stile” che connoterebbe tali monumentali frammenti architettonici, sospesi tra ambiguità e paradosso.
Inflessioni diversissime, atmosfere di grande lirismo, qualche concessione alla retorica, improvvisi crossover semantici: dove sono insomma queste radici? La sintesi la coglie il prezioso cammeo di Mariagrazia Pontorno: le sue Roots sono ovunque, sulle piantine, sugli alberi, sui grattacieli di Manhattan, ma fluttuano spinte da un vento di tempesta che monta fino a sradicarle. Perché è importante averle, la radici, ma che siano fluttuanti…
EVENTO SPECIALE
SHIRIN NESHAT - WOMEN WITHOUT MEN (2009)
PROIEZIONE UNICA: LUNEDÌ 29 AGOSTO 2011 - ORE 21.30
SALA DEL CAPITANO – PIAZZA DEL POPOLO
Shirin Neshat, premiata per questo film con il Leone d'Argento per la regia alla 66a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è una delle artiste contemporanee più apprezzate degli ultimi decenni. Nata nel 1957 a Kazvin in Iran, nel 1979 all'età di 17 anni si trasferisce negli Stati Uniti per frequentare l'Università di Berkeley in California. Inizia a esporre a New York negli anni '90. Dal 1993 al 1997 crea la serie di fotografie, Women of Allah, con cui raggiunge la fama internazionale. Nel 1996 comincia a utilizzare il video e tre anni dopo crea un'installazione con una doppia proiezione. Con il video Turbulent nel 1999 ottiene il Leone d'Oro alla 58a Biennale d'Arte di Venezia, a cui fanno seguito numerose mostre internazionali e personali nei musei di arte contemporanea di tutto il mondo.
Donne senza uomini - Women without men è un'opera monumentale a cui l'artista ha lavorato dal 2004 al 2008, e che si basa sull'omonimo romanzo della scrittrice iraniana Shahnush Parsipur, pubblicato nel 1989 e bandito in Iran. Il romanzo è ambientato nel 1953, all'epoca del colpo di stato sostenuto dagli eserciti americano e inglese per deporre il presidente democraticamente eletto, Mohammad Mossadegh, e per riportare al potere lo Shah, evitando quindi la nazionalizzazione dei pozzi petroliferi.