Alan Charlton – Il respiro del limite

Informazioni Evento

Luogo
A ARTE INVERNIZZI
Via Domenico Scarlatti 12, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

DA LUNEDÌ A VENERDÌ 10-13 14-18 E SU APPUNTAMENTO

Vernissage
01/07/2020

ore 15

Artisti
Alan Charlton
Curatori
Francesca Pola
Generi
arte contemporanea, personale

Alan Charlton. Il respiro del limite il primo appuntamento del ciclo di mostre In Divenire. Idea e immagine nella contemporaneità.

Comunicato stampa

La galleria A arte Invernizzi inaugura mercoledì 1 luglio 2020 dalle ore 15 alle ore 20 Alan Charlton. Il respiro del limite il primo appuntamento del ciclo di mostre In Divenire. Idea e immagine nella contemporaneità.

Come possiamo leggere e definire il progetto di un’opera, l’idea di un’immagine, oggi, nella dimensione “aumentata” del nostro agire quotidiano ed operare creativo? Esiste un’autonomia e una significazione del progetto, nell’immersività partecipata e distratta dell’era post-digitale? Come possiamo ripensare e ridefinire questa relazione alla luce delle inedite coordinate di spaziotempo ed esperienza che viviamo nell’oggi? In questa dimensione “espansa” dei sensi e della mente, quale significato assume il “progettare” quelle presenze di scarto, di interrogazione, di soglia su un altrove che sono le opere d’arte? Con queste esposizioni si cercherà di indagare il rapporto tra progetto e opera in chiave inedita e attualizzante: mostrando sia la specificità individuale, storica, contestuale delle scelte dei singoli artisti, sia l’attualità che il loro procedere creativo oggi rappresenta. In divenire appunto, tra ciò che è stato e ciò che sarà: in divenire, tra idea e immagine.
In questa occasione verrà presentata, nella sala al piano superiore, Pyramid Grid Painting (2011) opera emblematica per comprendere la relazione che nel lavoro di Alan Charlton si articola tra idea e immagine: il lavoro, costituito da undici tele monocrome grigie della medesima tonalità e disposte a costituire una piramide rovesciata, è infatti preceduto da un progetto a collage, nel quale proporzionalità e cromie si riconoscono analoghe, ma il cui risultato fenomenico ed esperienziale risulta di natura completamente differente. In una conversazione di alcuni anni fa, proprio a una domanda sul ruolo del progetto nel suo lavoro, Charlton mi rispondeva con la consueta naturalezza densa di pensiero: “Fare il disegno è una cosa, ma poi, quando lo realizzi, diventa un’opera completamente differente”. (Francesca Pola)

In occasione di questa inaugurazione sarà possibile visitare anche la mostra in corso Pino Pinelli. Frammentità a cura di Giorgio Verzotti.

INGRESSO CONTINGENTATO NEL RISPETTO DEI PROTOCOLLI DI SICUREZZA PER IL CONTRASTO E CONTENIMENTO DEL VIRUS COVID-19

PERIODO ESPOSITIVO: 01-10 LUGLIO 2020
ORARI: DA LUNEDÌ A VENERDÌ 10-13 14-18 E SU APPUNTAMENTO

Saggio critico

IN DIVENIRE
Idea e immagine nella contemporaneità

Tre sono le accezioni possibili, tra loro interconnesse e interagenti, individuabili nell’idea di progetto: ipotesi di futuro, spazio e luogo di verifica ed elaborazione, proposta di realizzazione. Possiamo identificarli come tre gradi, tra loro temporalmente successivi o in parte sovrapponibili, di una relazione con il fare, e riconoscerli per questa via come intrinsecamente connessi al pensiero creativo. In questo ciclo di mostre, oggetto di attenzione è questo rapporto complesso tra progetto e opera, idea e immagine, concezione ideativa e traduzione visibile della creatività. Questa relazione non è tuttavia interpretata nei termini consueti con cui viene generalmente affrontata, ovvero secondo canoni principalmente descrittivi e illustrativi, volti a illustrare il passaggio dall’uno all’altro, nella enucleazione del metodo di lavoro del singolo artista; essa viene qui piuttosto indagata nella sua dimensione speculativa, cercando di delineare le coordinate che sottendono genesi e statuto dell’idea creativa aurorale, e come queste inducano la sua metamorfosi in immagine compiuta.
Come possiamo leggere e definire il progetto di un’opera, l’idea di un’immagine, oggi, nella dimensione “aumentata” del nostro agire quotidiano ed operare creativo? Esiste un’autonomia e una significazione del progetto, nell’immersività partecipata e distratta dell’era post-digitale? Come possiamo ripensare e ridefinire questa relazione alla luce delle inedite coordinate di spaziotempo ed esperienza che viviamo nell’oggi? In questa dimensione “espansa” dei sensi e della mente, quale significato assume il “progettare” quelle presenze di scarto, di interrogazione, di soglia su un altrove che sono le opere d’arte? Si cercherà quindi di indagare il rapporto tra progetto e opera in chiave inedita e attualizzante: mostrando sia la specificità individuale, storica, contestuale delle scelte dei singoli artisti, sia l’attualità che il loro procedere creativo oggi rappresenta. In divenire appunto, tra ciò che è stato e ciò che sarà: in divenire, tra idea e immagine.

Alan Charlton: il respiro del limite

È in quella dimensione liminale tra idea e immagine, tra mentale e fisico, che dai propri esordi si colloca l’azione di Alan Charlton: la sua scelta, dalla fine degli anni Sessanta, di dipingere solo quadri grigi, costruiti modularmente, secondo una neutralità non neutrale. La sua opera è una continua domanda di presenza e spazio che reinventa il mondo in un ritmo inevitabile come un respiro, continuamente simile, iterato, e continuamente diverso, unico, procedendo per minime variazioni, permutazioni, scarti, sul crinale del limite della nostra esperienza possibile. Nella sua esattezza progettuale e realizzativa, che rifiuta la prevedibilità quanto il caso, il lavoro di Charlton traduce la libertà consapevole e ineludibile dell’atto creativo in deroga all’arbitrio di qualsiasi formatività predeterminata, in quel territorio indefinibile dell’immagine che può farsi luogo dell’umano riconoscersi.
Da sempre il suo lavoro si fonda su una forte base progettuale: niente è lasciato al caso, niente è improvvisato. Tuttavia, mai l’ideazione si risolve compiutamente alla scala ridotta del progetto, che non è semplicemente scintilla creativa o esercizio compositivo, ma già dall’inizio strutturalmente e indissolubilmente legato al contesto di destinazione: ipotesi di elaborazione che necessita la propria verifica nell’esperienza prima del dipingere e poi dell’installare l’opera. Charlton non lavora mai in astratto, per uno spazio ideale. Se infatti geometria e proporzione sono elementi fondativi del suo linguaggio, altrettanto imprescindibile è quella dimensione di fisicità esecutiva che sottopone ogni lavoro a una costante verifica sensoriale: nell’assenza di qualsiasi mediazione intellettualistica, che tuttavia non esclude una fondante componente mentale. Costantemente coniuga l’intenzionalità formante e ordinatrice dell’opera con la dimensione dinamica e attiva delle sue relazioni sensoriali e spaziali.
È una dialettica di progetto e processo che si rintraccia come fondamentale per quel nodo storico-critico tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta in cui si colloca la genesi del suo codice espressivo: un panorama che pare muoversi tra gli estremi del tautologismo concettuale da un lato, con la dissoluzione dell’immagine nell’idea, e l’estemporaneità performativa dall’altro, con l’annullamento dell’oggetto nell’azione. Il confronto serrato in atto, in quegli anni, è sì tra opera o comportamento, ma ancor più tra dematerializzazione o fisicizzazione integrali, che non paiono contemplare compromessi possibili, in cui il progetto (l’idea, il linguaggio, l’evento) pare sostituirsi completamente all’oggetto. In questo contesto, Charlton adotta quella che potremmo definire una terza via: il processo controllato, la progettazione dell’esperienza. È una dimensione che da utopica si fa concreta, nella visione di un mondo possibile: una visione di costruzione, non di distruzione - la riduzione, non l’annullamento. Sceglie una neutralità significante: il grigio, il modulo, un nuovo alfabeto fatto della corporeità del dipingere. Non della pittura, del dipingere. Potremmo definirlo un concettualismo del fare e dell’esperire, più che dell’idea: una radicalità altra, per cui qualsiasi ipotesi mentale di ridefinizione delle nostre coordinate spaziotemporali resta strettamente legata alla propria messa in opera, alla propria traduzione sensoriale in immagine.

Pyramid Grid Painting (2011) è un’opera emblematica per comprendere la relazione che nel lavoro di Charlton si articola tra idea e immagine: il lavoro, costituito da 11 tele monocrome grigie della medesima tonalità e disposte a costituire una piramide rovesciata, è infatti preceduto da un progetto a collage, nel quale proporzionalità e cromie si riconoscono analoghe, ma il cui risultato fenomenico ed esperienziale risulta di natura completamente differente. Nonostante l’esattezza del progetto rispetto alla sua traduzione in immagine definitiva, l’opera di Charlton mantiene infatti una componente metodologica fortemente processuale, che si risolve nel momento del fare e non può ad esso sostituirsi: la realizzazione non è infatti mai demandabile (a differenza ad esempio, di quanto può accadere per gli interventi a parete di Sol LeWitt), perché le componenti di modularità e iterazione sono vivificate dalla emanazione fisico-cromatica del grigio, dalla sua identità concreta e fenomenica strettamente connessa a tempi e luoghi della propria esecuzione.
L’elemento insieme di continuità e variazione più evidente tra il momento dell’idea e quello dell’opera, nella variazione di scala dell’estensione pur nella analogia della forma, è in questo caso dato proprio dalla componente volumetrica, dalla modificazione del dato spaziale secondo la presenza cromatica, in una idea inclusiva di proporzionalità che non è solo misura ma anche e soprattutto commisura, dialettica tra unità e molteplicità. Charlton definisce il singolo elemento, il suo ruolo nell’insieme dell’opera, la sua relazione con la parete, la sua presenza che modifica l’esperienza di spaziotempo che ci troviamo a vivere. È un dipingere come costruzione di corpo, dove costante è la percezione di un’inevitabilità della presenza risultante, di una assoluta compenetrazione dell’immagine con il processo che l’ha ideata e generata, con la sua stessa materialità e collocazione. Attraverso una sorta di fisiologia del pensiero, Charlton agisce al livello intenzionalmente elementare dei fenomeni: ciononostante, la dialettica costante tra oggetto e immagine, materia e visione che emerge dai suoi lavori è a ogni occasione risolta in modo inatteso, in inedite morfologie.
Le radici fondanti di questo pensiero assoluto e concreto si possono rintracciare nella linea del costruttivismo storico, ma non vi è nessuna astrazione nell’opera di Charlton, perché tutto è da lui costantemente ricondotto a una dimensione di realtà. Non è un discorso di superficie o di composizione: il suo intento è di riportare la monocromia a una relazione di esperienza concreta, per quanto non soggettiva. A partire dalla scelta del suo modulo, corrispondente allo spessore del taglio del legno in Inghilterra: quanto insieme di più individuato e meno soggettivo si possa concepire. L’unicità oltre la soggettività: questo il grande tema di tutto il lavoro di Charlton. È un aderire al mondo e alle sue impercettibili trasmutazioni, distillando i singoli passaggi delle sue vibrazioni, nella non scindibilità dal proprio fare in un luogo e in un tempo determinati: qui si colloca il senso del suo operare creativo. Ecco allora il progetto: come fondamento di questo distillare ma anche come limite, collocandosi in un tempo e spazio differenti da quello in cui fisicamente verrà realizzata l’opera, o meglio per cui e in cui respirerà.
Potremmo dunque chiederci: ha senso “progettare” un monocromo? Come Charlton affronta questa sfida? Per rispondere a questa domanda, è necessario contestualizzare la sua opera mettendola a confronto con la doppia radice di superamento della tradizione del monocromo che egli intende negare: da un lato, il quadro nero di Ad Reinhardt, ovvero l’assoluto della pittura; dall’altro, l’Achrome di Piero Manzoni, ovvero l’assoluto della realtà. Charlton intenzionalmente abbandona questo campo delle essenze assolute e si sposta su quello dei fenomeni relativi: abbandona entrambi questi poli essenzialistici, per rielaborare un rapporto con l’esperienza. È una dialettica di fare e progettare che connota la sua generazione, nel confronto con la nascente arte concettuale, ma anche della pittura a confronto con l’universo esteso dell’immagine mediatica: penso a Joseph Kosuth, ma anche a Gerhard Richter, che non a caso, pur in altra chiave rispetto a Charlton, ha indagato a lungo la “dimensione” del grigio (e sarebbe interessante dedicare a questo tema uno specifico studio comparato).
Il monocromo è moltiplicato e parcellizzato, ricreato in una identità collettiva. Le singole monadi, uguali e diverse tra loro, lo ricompongono per la nostra esperienza. In una conversazione di alcuni anni fa, proprio a una domanda sul ruolo del progetto nel suo lavoro, Charlton mi rispondeva con la consueta naturalezza densa di pensiero: “Fare il disegno è una cosa, ma poi, quando lo realizzi, diventa un’opera completamente differente”.
Il proprio studio, per Charlton, è luogo germinale del pensiero. Da sempre vi trascorre ogni sua giornata, con rigore e disciplina (altri due aspetti spesso associati all’idea di progettualità). Charlton non fa schizzi o bozzetti: l’esattezza è dimensione ideativa, verrebbe quasi da dire ontologica, prima ancora che operativa, di ogni suo fare. Egli vi traduce una dimensione umanistica ma non necessariamente espressiva: potremmo definirlo un umanesimo geometrico lirico, individuato ma non soggettivo, che ha il suo fulcro nella riflessione spaziale, e in cui il momento progettuale non può essere disgiunto da un’acquisizione progressiva di consapevolezza fenomenica. Un umanesimo della concentrazione e della identificazione, in cui la concretezza del nostro essere il mondo si esplicita nello scandire l’esperienza: l’idea vive la sua irripetibilità, l’immagine respira un nuovo significato, e noi con lei.

Francesca Pola
Milano, 18 giugno 2020