Alberto Castelli
Tutto il lavoro di Alberto Castelli può essere colto come applicazione e disciplina quotidiana della memoria, una recherche realizzata con i mezzi propri della pittura.
Comunicato stampa
Tutto il lavoro di Alberto Castelli può essere colto come applicazione e disciplina quotidiana della memoria, una recherche realizzata con i mezzi propri della pittura. Una sorta di mandato familiare ed individuale che si compie all’interno dello studio, attraverso una pratica di “religiosità” e contemplazione.
L’atelier proietta una dimensione di abbondanza e sospensione temporale e spinge l’artista ad affrontare quotidianamente i vuoti come le tracce di un’indagine, paradossalmente svolta nel doppio ruolo di inquirente/inquisito. La stratificazione dei tratti della pittura è un analogo della memoria quando è in moto alla ricerca di un oggetto specifico. Nel linguaggio comune è “fare mente locale”. Riordinare le idee. Recuperare le radici del dimenticato. Meditare attraverso il segno per andare oltre il rimosso. Essere presenti. Essere pronti. È così che i pensieri dello studio si “rapprendono” in quadri. Selezionati, captati o semplicemente capitati.
Pur nella solitudine dello studio, Alberto Castelli, approccia la pittura come frammento di drammaturgia, fantasma di opera collettiva colta in un momento qualunque della narrazione. La fascinazione per la fotografia è in realtà una fascinazione del frame, del fotogramma, della pellicola, del frammento audiovisivo. Figurarsi il cinema come convivenza coordinata di esseri umani, come somma arte delle maestranze e cercare similmente nella pittura il coordinamento dei segni mediato dal singolo. Il rapporto tra ciò che si è mentre si dipinge e ciò che si anima (o disanima) all’interno.
Una fantasia registica che si oppone all’autoreferenzialità del pittore che, come in tutte le forme di asocialità mirata, sembra volere ad un certo punto scoppiare nel suo contrario esatto. Il mondo.
È difficile, infatti, spiegare o condividere con gli altri “la lunga preparazione che porta ad una pennellata perfetta per l’economia di un’opera”, perché la questione meramente tecnica è invece il risultato di tutta una serie di “rivelazioni”. Quindi non è più tecnica.
Viene da chiedersi se il momento della felicità pittorica sia una divinità che si manifesta o un segreto che non viene rappresentato mai del tutto.
Come misteri colti nell’inquietudine della fissità, come miti congelati.
Le immagini per Alberto Castelli sono objet trouvè, fotogrammi casuali raccolti da lui stesso, da altre persone, da riviste, da cellulari. La fotografia non gli interessa in quanto tale. L’atlas è mero accumulo. Il trasferimento dalla fotografia alla pittura risiede nella sensualità del supporto e poco in quella del soggetto. Come in un rapporto elettivo con tutti i feticci del pittoricismo fotografico, la componente di inattualità si sfalda nel segno, nel particolare, nel taglio.
Perché si può dialogare con i secoli passati, come Balthus, ma nessuno può sfuggire alla contemporaneità.
E allora i vestiti raccontano un periodo, anzi più che i vestiti sono proprio le fisicità che lasciano una traccia generazionale. Come Galliano ma senza alcun intento “documentaristico”.
Gli sfondi, luoghi non estrapolati dalla realtà cittadina, vivono lontani, freddi, intangibili.
Come se provenissero dal demone di qualche direttore della fotografia, di qualche strano western, dove non succede niente. Viene in mente American Gothic di Grant Wood, sulla copertina dell’Antologia di Spoon River, ma senza prospettiva frontale. Girarsi di lato come negazione del ritrarre.
Mettersi in posa che è un togliersi dalla posa.
I soggetti, appartenenti ad una genìa ribelle ma inconsapevole, percorrono le proprie parabole antisistema da soli e l’autore li definisce “apatici”. Ridurre “l’altro” ad oggetto convenzionale diventa necessario, dunque, per disattivare ogni pathos, perché il mondo di fuori non deve attrarre né far male.
Passo indietro.
Alberto Castelli cresce negli anni ’70 e Torino può non sembrare completamente accogliente e sicura.
Nel passaggio dagli anni ’70 agli ’80, circondata da un ambiente che non concilia postumi del benessere con una crescente percepita discordia sociale (che sfocia nel terrorismo e nella paura), la famiglia di Alberto Castelli trova una chiave di fuga nell’amore per l’arte. La frequentazione dei grandi musei internazionali è la vacanza dal telegiornale urbano.
L’arte è il luogo familiare.
Il padre di Castelli è pittore e antiquario e sembra educare il figlio ad una sorta di omaggio al museo. “Anch’io” è la sintesi del giovane Alberto davanti a La zattera della medusa di Théodore Géricault. Ma sembra sottintendere “anch’io come papà”. E la storia diventa esemplare, riconciliandosi con quella di tutti. In qualche modo, i personaggi dei quadri di AC sembrano provare a fissare, sembrano voler congelare un’infanzia perenne ed impossibile.
Le chiome della ribellione diventano alberi placidi sui quali meditare.
La chioma dell’albero porta in campagna.
I soggetti urbani vengono privati dell’ideologia di appartenenza alla città.
I soggetti vengono risucchiati. Dove vanno?
Dove va il lavoro di Alberto Castelli?
testo di Fabio Vito Lacertosa