Aldo Contini 1959/2009 – Le alchimie della ragione

Informazioni Evento

Luogo
PINACOTECA COMUNALE CARLO CONTINI
Via Sant’Antonio , Oristano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

tutti i giorni, 10.30/13.00 – 16.30/19.30

Vernissage
23/11/2019
Artisti
Aldo Contini
Curatori
Ivo Serafino Fenu, Giannella Demuro
Generi
arte contemporanea, personale

Un percorso di oltre 70 opere – molte delle quali inedite –, per riscoprire quell’inconfondibile “leggerezza” nell’affrontare le cose della vita e dell’arte.

Comunicato stampa

Dal 23 novembre al 26 gennaio 2020 la Pinacoteca Carlo Contini di Oristano ospita la mostra ALDO CONTINI 1959/2009, le alchimie della ragione a cura di Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu. Prodotta dal Comune di Oristano – Assessorato alla Cultura col contributo della Fondazione di Sardegna, in collaborazione con la Fondazione Oristano e con l’Associazione culturale tramedarte, è la prima retrospettiva – a dieci anni dalla scomparsa – dedicata ad Aldo Contini (Sassari, 1924-2009), uno dei massimi artisti contemporanei che la Sardegna abbia espresso negli ultimi settant’anni. Un percorso di oltre 70 opere – molte delle quali inedite –, per riscoprire quell’inconfondibile “leggerezza” nell’affrontare le cose della vita e dell’arte e per rileggere un’esperienza estetica tra le più complesse e stratificate, preludio di una più articolata mostra che si terrà nella sua città natale nel 2020. Il percorso espositivo, con importanti opere pittoriche, grafiche e documentarie messe a disposizione dalla famiglia dell’artista, è stato curato dallo scenografo Mattia Enna e da Ivo Serafino Fenu.

È passato sulla terra leggero, com’è dato solo a coloro che, pur grandi, hanno saputo interpretare la loro vicenda terrena con rigore ma, al contempo, con distacco critico e disincantata ironia. Ad Aldo Contini (Sassari, 1924-2009), uno dei massimi artisti contemporanei che la Sardegna abbia espresso negli ultimi settant’anni, la Pinacoteca comunale di Oristano dedica la prima retrospettiva – a dieci anni dalla sua scomparsa –, per riscoprirne quell’inconfondibile “leggerezza” nell’affrontare le cose della vita e dell’arte e per rileggerne un’esperienza estetica tra le più complesse e stratificate.

Amava ripetere che «in arte si può fare tutto e il contrario di tutto, l’importante è non crederci», in un gioco dialettico basato sulla dissimulazione e sul depistaggio, e tale motto è stato da sempre la sua linea guida, fin dalla fine degli anni Cinquanta, quando – autodidatta in campo figurativo e con alle spalle studi interrotti di ingegneria –, collabora con Eugenio Tavolara all’interno dell’I.S.O.L.A., divenendone il braccio destro e contribuendo con i suoi progetti di designer allo svecchiamento dell’artigianato sardo.

Dal 1962 comincia a insegnare presso l’Istituto d’Arte di Sassari, allora diretto da Mauro Manca, in un clima di forte sperimentalismo che fece entrare la Sardegna nella sfera del contemporaneo. Nel ´65 aderisce al Gruppo A avvicinandosi alla pratica pittorica. Appartengono a quel periodo singolari opere su stagnola le cui rarefatte suggestioni figurative appaiono distanti dalle astrazioni materiche e informali portate nell’isola dallo stesso Manca.

Alcuni anni dopo, nel 1971, produce la serie dei Teatrini, luoghi della rappresentazione percettivamente illusori, quadri scomposti e riassemblati come oggetti dove la tela, sezionata in bande dipinte con un pattern rigato dai colori vivaci, è tesa e incrociata attorno ad un’intelaiatura realizzata da sovrapposizioni di più cornici, a creare uno spazio tridimensionale aperto, senza confini, senza centro né periferia. La cornice diventa essa stessa pittura, e la pittura cornice, in un rapporto di scambio e reciprocità al servizio di una meta-riflessione sull’arte.

Nel ´76 fonda il Gruppo della Rosa, un’operazione artistica collettiva che, circoscrivendo l’indagine a un tema convenzionale e stereotipato come quello della rosa, propone un concettualismo “lieve”, ironico e dissacratorio, lo stesso che, sostenuto da una manualità alla quale non rinuncerà mai, diverrà una costante di tutta la produzione successiva di Contini.

È da queste riflessioni che, a partire dal 1977, realizza la serie delle Tautologie, un ciclo di dipinti in cui si coniugano, con maggiore evidenza, manualità pittorica e intento concettuale. Tubetti di colore si stagliano su fondi morbidi di neutri monocromi, circondati da lettere e parole che, “tautologicamente”, indicano il colore del pigmento – carminio, celeste, violetto … – come a voler definire l’essenza stessa, sia fisica che metaforica, della pittura e del pensiero che la sottende.

Seguono, nel 1983, le Piccole tavole, frammenti poveri di legni e cartoni innervati di stucco denso e irregolare, impreziositi da un uso sapiente della materia pittorica. Campiture dense e stratificate di grumi di colore o, alternativamente, velature liquide e trasparenti, accolgono segni, gesti, tracce, bagliori di vita come appunti minimi e discreti.

Un elogio della pittura che echeggia anche nei rossi monocromi realizzati a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, variazioni minimali di colore e umori, con cui Contini costruisce uno spazio pittorico senza confini, che riverbera la dimensione emozionale dell’esistenza e si espande senza limiti verso l’esterno.

La stessa tematica viene ulteriormente affrontata alla fine del decennio, nel 1989, nella serie delle Vetrate. Il colore trasparente, velato e attraversabile, è sostituito da campiture luminose di smalto rosso, dense, materiche, rigidamente contenute e limitate, all’interno del quadro, da spesse e severe griglie nere. Ma il contenimento del colore è parziale: la sottile cornice nera che circonda il quadro è volutamente incompleta, a tratti interrotta, aperta, e la pittura ancora una volta, si espande verso l’esterno, verso il mondo.

È in quest’ottica che negli anni Novanta crea la serie dei Magnificat. Navigatore della storia dell’arte e dell’estetica ne recupera, distillandola, l’essenza teoretica e formale per approdare a un facere che materializza l’idea e trasforma l’oggetto in concetto. Attraverso le icone bizantine – passando per le Maestà di Duccio e di Giotto, per le complesse costruzioni spaziali e filosofiche del tedesco Dürer e del suprematista Malevič, fino alla tradizione dei retabli sardo-catalani a fondo oro –, prendono forma i suoi “retabli domestici”, capaci di confrontarsi con l’hic e il nunc e, insieme, di porsi in una temporalità sospesa e metafisica, in una fusione perfetta di rigore concettuale e prassi operativa e, allo stesso tempo, critica lucida e serrata delle mitologie storiche e artistiche della contemporaneità.

Le tavole – un testamento spirituale caratterizzato da un’ostinata laicità – a forma di croci irregolari o frutto di assemblaggi modulari, ricoperte di foglia d’oro e d’argento falso, immutabili nel tempo, rifrangono la luce in un cangiantismo estemporaneo che si intreccia con la mutazione lenta e costante dell’oro falso e dell’argento vero, che tendono a divenire sempre più scuri, caricandosi di arcane valenze simbolico-teosofiche, dove la mistica della luce medioevale si sposa alla prospettiva aerea e allo studio dei poliedri regolari di pierfrancescana memoria. Così Contini impone alle sue ultime opere una trasformazione in parte programmata e in parte accidentale, una temporalità che trasforma lentamente i rapporti cromatici e introduce elementi contraddittori quali scritte o forme geometriche fortemente semplificate.

È l’irruzione di una dimensione storica e critica su una base che si vorrebbe atemporale e fuori dalla storia, eppure attualissima e perennemente in fieri.

Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu